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The Feeling of Power, Isaac Asimov

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Isaac Asimov

Isaac Asimov

Nove volte sette

Titolo originale: The Feeling of Power
Prima edizione: If, febbraio 1958
Traduzione di Carlo Fruttero

Jehan Shuman era abituato a trattare con gli uomini che da molti anni dirigevano lo sforzo bellico terrestre. Non era un militare, Shuman, ma a lui facevano capo tutti i laboratori di ricerche incaricati di progettare i cervelli elettronici e gli automi impiegati nel conflitto.
Di conseguenza, i generali gli prestavano ascolto. E lo stavano a sentire perfino i capi delle commissioni parlamentari.
C’erano due esemplari di entrambe queste specie nella saletta del Nuovo Pentagono. Il generale Weider aveva il volto bruciato dagli spazi e la bocca molto piccola, quasi sempre atteggiata in una smorfia. Il deputato Brant aveva guance tonde, lisce, e occhi chiari. Fumava tabacco denebiano con l’indifferenza di un uomo il cui patriottismo è notorio e che può quindi permettersi certe libertà.
Shuman, alto, elegante, e Programmatore di prima classe, li affrontò senza esitazione.
Disse: – Signori, questo è Myron Aub.
– Sarebbe lui l’individuo dotato di speciali capacità, che avete scoperto per caso? – disse il deputato Brant, senza scomporsi.
– Bene! – Con bonaria curiosità squadrò l’omettino calvo, con la testa a uovo.
L’ometto reagì intrecciando nervosamente le dita. Non era mai stato a contatto di persone così importanti in vita sua. Era un Tecnico d’infimo rango, già abbastanza avanti negli anni, che dopo aver fallito tutte le prove di selezione destinate a individuare i cervelli umani meglio dotati, s’era ormai rassegnato da anni a un lavoro oscuro e monotono. Ma poi il Grande Programmatore aveva scoperto il suo hobby e l’aveva trascinato qui.
Il generale Weider disse: – Questa atmosfera di mistero mi sembra puerile.
– Un minuto di pazienza – disse Shuman – e vedrà che cambierà idea. Si tratta di una cosa che non va assolutamente divulgata…
Aub! – Pronunziò il nome monosillabico come se fosse un comando militare, ma era un Primo Programmatore e parlava a un semplice Tecnico.
– Aub! Quanto fa nove volte sette?
Aub esitò un istante. I suoi occhi smorti ebbero un fioco lampo di ansietà. – Sessantatré – disse.
Il deputato Brant inarcò le sopracciglia. – È giusto?
– Controlli lei stesso, onorevole.
Il deputato trasse la sua calcolatrice tascabile, ne sfiorò con le dita due volte il bordo zigrinato, guardò il quadrante e la ripose in tasca. Disse: – E sarebbe questo il fenomeno che lei ci ha chiamato qui ad ammirare? Un illusionista?
– Molto di più, onorevole. Aub ha mandato a memoria alcune operazioni e sa calcolare sulla carta.
– Una calcolatrice di carta? – disse il generale. Sembrava deluso.
– No, generale – disse Shuman, paziente. – Non è una calcolatrice di carta.
Semplicemente un foglio di carta. Generale, vuol essere così gentile da proporre un numero qualsiasi?
– Diciassette – disse il generale.
– E lei, onorevole?
– Ventitré.
– Bene! Aub, moltiplichi questi due numeri e faccia vedere a questi signori in che modo esegue l’operazione.
– Sissignore – disse Aub, chinando il capo. Trasse un taccuino da una tasca della camicia e una sottile matita da pittore dall’altra. La sua fronte era tutta aggrottata mentre tracciava faticosamente sulla carta dei piccoli segni.
Il generale Weider lo interruppe in tono asciutto. – Mi faccia vedere.
Aub gli porse il taccuino e Weider commentò: – Be’, sembra il numero diciassette.
Il deputato Brant annuì e disse: – Proprio così, ma è chiaro che chiunque può copiare dei numeri da una calcolatrice. Io stesso, credo, sarei capace di disegnare un diciassette passabile, anche senza esercizio.
– Se i signori non hanno nulla in contrario, Aub potrebbe continuare – intervenne soavemente Shuman.
Aub continuò, la mano un po’ tremante. Infine disse a bassa voce: – La risposta è trecentonovantuno.
Il deputato Brant consultò una seconda volta la sua calcolatrice tascabile. – Perdio, è esatto. Come ha fatto a indovinare?
– Non ha indovinato, onorevole – disse Shuman. – Ha calcolato il risultato.
L’ha fatto su questo foglietto di carta.
– Storie – disse il generale con impazienza. – Una calcolatrice è una cosa e dei segni sulla carta un’altra.
– Spieghi lei, Aub – disse Shuman.
– Sissignore… Ecco, signori, io scrivo diciassette e subito sotto scrivo ventitré. Poi mi dico: sette volte tre…
Il deputato lo interruppe pacatamente. – Attento, Aub, il problema è diciassette volte ventitré.
– Sì, lo so, lo so – Sì affrettò a spiegare il piccolo Tecnico – ma io comincio col dire sette volte tre perché è così che funziona. Ora, sette volte tre fa ventuno.
– E come lo sa lei? – chiese il deputato.
– Me lo ricordo. Dà sempre ventuno sulla calcolatrice. L’ho controllato innumerevoli volte.
– Questo non significa che lo darà sempre, però – disse il deputato.
– Forse no – balbettò Aub. – Non sono un matematico. Ma vede, i miei risultati sono sempre esatti.
– Vada avanti.
– Sette volte tre fa ventuno, e io scrivo ventuno. Poi tre per uno fa tre, così io scrivo tre sotto il due di ventuno.
– Perché sotto il due? – chiese il deputato Brant, secco.
– Perché… – Aub lanciò un’occhiata implorante al suo superiore. – È difficile da spiegare.
Shuman intervenne: – Direi che per il momento convenga accettare per buono il suo metodo e lasciare i particolari ai matematici.
Brant si arrese.
Aub proseguì: – Tre più due fa cinque, e perciò il ventuno diventa un cinquantuno. Ora, lasciamo stare per un momento questo numero e cominciamo da capo. Si moltiplica sette per due, che ci dà quattordici, e uno per due che ci dà due. Li scriviamo così e la somma ci dà trentaquattro. Ora se mettiamo il trentaquattro sotto il cinquantuno in questo modo, sommandoli otteniamo trecentonovantuno, che è il risultato finale.
Vi fu un istante di silenzio e il generale Weider disse: – Non ci credo. È una bellissima filastrocca e tutto questo giochetto di numeri sommati e moltiplicati mi ha divertito molto, ma non ci credo. È troppo complicato per non essere una ciarlatanata.
– Oh, no, signore – disse Aub, tutto sudato. – Sembra complicato perché lei non è abituato al meccanismo. Ma in realtà le regole sono semplicissime e funzionano con qualsiasi numero.
– Qualsiasi numero, eh? – disse il generale. – Allora vediamo.
– Trasse di tasca la sua calcolatrice (un severo modello militare) e la toccò a caso. – Scriva sul suo taccuino cinque sette tre e otto. Cioè cinquemilasettecentotrentotto.
– Sissignore – disse Aub staccando un nuovo foglio di carta.
– Ora – toccò di nuovo a caso la calcolatrice – sette due tre e nove.
Settemiladuecentotrentanove.
– Sissignore.
– E adesso moltiplichi questi due numeri.
– Ci vorrà un po’ di tempo – balbettò Aub.
– Non abbiamo fretta – disse il generale.
– Cominci pure Aub – disse Shuman, tagliente.
Aub cominciò a lavorare tutto chino. Staccò un secondo foglio di carta, poi un terzo. Finalmente il generale trasse di tasca l’orologio e lo considerò con impazienza. – Allora, ha finito coi suoi esercizi di magia?
– Ci sono quasi arrivato, signore… Ecco il prodotto, signore. Quarantun milioni, cinquecentotrentasettemilatrecentottantadue. – Mostrò la cifra scarabocchiata in fondo all’ultimo foglio.
Il generale Weider sorrise condiscendente. Premette il pulsante di moltiplicazione sulla sua calcolatrice e attese che il ronzio dei meccanismi tacesse. Poi guardò il quadrante della minuscola macchina e disse con voce rauca dallo stupore: – Grande Galassia, l’ha azzeccato in pieno.

Il Presidente della Federazione Terrestre stentava ormai a mascherare, in pubblico, la tensione che lo rodeva e, in privato già permetteva che un’ombra di malinconia velasse i suoi lineamenti delicati, di uomo sensibilissimo. La guerra denebiana, dopo l’entusiasmo e l’unanime slancio dei primi anni, s’era rattrappita a un gioco inane di manovre e contromanovre. Sulla Terra lo scontento cresceva ogni giorno e cresceva forse anche su Deneb.
E ora il deputato Brant, capo dell’importantissima Commissione Parlamentare sull’Organizzazione della Difesa, stava allegramente e placidamente dissipando la sua mezz’ora di colloquio in chiacchiere inutili.
– Calcolare senza una calcolatrice – osservò il presidente con impazienza – È una contraddizione in termini.
– Calcolare – disse il deputato – È soltanto un sistema per elaborare dei dati. Può farlo una macchina come può farlo il cervello umano. Permetta che le dia un esempio. – E, servendosi delle capacità da poco acquisite, prese a calcolare somme e prodotti finché il presidente suo malgrado sentì nascere un certo interesse.
– E funziona sempre?
– Infallibilmente, signor Presidente. Non sbaglia un colpo.
– È difficile da imparare?
– Mi ci è voluta una settimana per impadronirmi perfettamente del sistema. Ma immagino che lei…
– Effettivamente – disse il presidente, pensoso – È un giochetto molto interessante. Ma a che cosa serve?
– A che cosa serve un neonato, signor Presidente? Sul momento non serve a nulla, ma non vede che questo è il primo passo verso la liberazione dalle macchine? Consideri, signor Presidente – il deputato si alzò e la sua voce profonda prese automaticamente le cadenze dei discorsi parlamentari – che la guerra denebiana è una guerra di calcolatrici contro calcolatrici. Le calcolatrici nemiche formano uno scudo impenetrabile di contro-missili che fermano i nostri missili, e le nostre bloccano i loro nello stesso modo. Ogni volta che noi perfezioniamo le nostre calcolatrici, i Denebiani fanno lo stesso, e ormai da cinque anni si è creato un precario e inutile equilibrio di forze. Ora noi siamo in possesso di un metodo che ci permetterà di vincere le calcolatrici, di scavalcarle, di attraversarle. Potremo combinare la meccanica del calcolo automatico con il pensiero umano, avremo per così dire delle calcolatrici intelligenti; a miliardi. Non posso prevedere esattamente quali saranno le conseguenze; ma è chiaro che questa innovazione avrà una portata incalcolabile. E se Deneb ci arriva prima di noi, sarebbe una vera catastrofe.
Con aria preoccupata il presidente disse: – Che cosa dovrei fare secondo lei?
– Conceda il pieno appoggio del governo a un piano segreto per lo sviluppo del calcolo umano. Lo chiami Progetto 63, se vuole. Io rispondo della mia commissione, ma avrò bisogno del sostegno del governo.
– Ma fin dove può arrivare il calcolo umano?
– Non c’è limite. Secondo il Programmatore Shuman, che mi ha parlato per primo di questa scoperta…
– Sì, ho sentito parlare di lui.
– Bene, il dottor Shuman mi dice che in teoria tutto ciò che sa fare una calcolatrice lo può fare anche una mente umana. In sostanza la calcolatrice non fa altro che prendere un numero finito di dati ed eseguire con essi un numero finito di operazioni. La mente umana è perfettamente in grado di ripetere il procedimento.
Il presidente rifletté per qualche istante. Infine disse: – Se lo dice Shuman, non ho motivo di dubitarne… Sarà verissimo. Almeno in teoria. Ma in pratica com’è possibile sapere in che modo lavora una calcolatrice?
Brant sorrise affabilmente. – Le dirò, signor Presidente; gli ho fatto la stessa domanda. E sembra che un tempo le calcolatrici venissero progettate e disegnate direttamente dagli esseri umani. Si trattava naturalmente di macchine molto rudimentali, dato che ciò avveniva prima che si fosse affermato il principio, ben più razionale, di affidare alle stesse calcolatrici la progettazione di calcolatrici ancor più perfezionate.
– Sì, sì. Continui.
– Il Tecnico Aub aveva uno strano hobby: si divertiva a ricostruire queste macchine arcaiche e così facendo ebbe modo di studiare il loro funzionamento e scoprì che poteva imitarle. La moltiplicazione che ho eseguito poco fa è un’imitazione del funzionamento di una calcolatrice.
– Straordinario! – Il deputato tossì leggermente. – E c’è un’altra cosa che vorrei farle presente, signor Presidente… quanto più riusciremo a sviluppare e ad estendere questo nostro progetto, con le sue infinite applicazioni, tanto maggiore sarà la percentuale di investimenti federali che potremo distogliere dalla produzione e dalla manutenzione delle calcolatrici. Via via che il cervello umano si sostituisce alla macchina, una parte crescente delle nostre energie o delle nostre risorse può essere dedicata a impieghi pacifici e in tal modo il peso della guerra sull’uomo comune andrà decrescendo progressivamente. Ed è inutile dire quanto un fatto simile favorisca il partito al potere.
– Ah – disse il presidente. – Capisco ciò che lei intende. Bene, si accomodi, onorevole, si accomodi. Ho bisogno di riflettere sulla sua proposta… Ma intanto, mi faccia ancora vedere quel trucchetto della moltiplicazione.
Vediamo se riesco a capire come funziona.

Il Programmatore Shuman non tentò di affrettare le cose. Loesser era un conservatore, un uomo molto legato alla tradizione, e aveva per le calcolatrici la stessa passione che aveva animato suo padre e suo nonno prima di lui. Controllava tutta la rete di calcolatrici dell’Europa occidentale, e ottenere il suo pieno appoggio al Progetto 63 avrebbe rappresentato un passo avanti di notevole importanza.
Ma Loesser esitava ancora. Disse: – Non vedo troppo di buon occhio quest’idea di mettere in secondo piano le calcolatrici. La mente umana è capricciosa. Una calcolatrice ci dà infallibilmente la stessa soluzione allo stesso problema, ogni volta. Chi ci garantisce che la mente umana sappia fare altrettanto?
– La mente umana, Calcolatore Loesser, non fa che manipolare dei dati. E allora non ha importanza se ad eseguire l’operazione è la mente umana o la macchina. L’una e l’altra sono semplicemente degli strumenti, dei mezzi.
– D’accordo, d’accordo. Ho studiato a fondo la sua ingegnosa dimostrazione e mi rendo conto che la mente è in grado di ripetere esattamente i procedimenti della macchina. Ma mi sembra lo stesso una cosa campata in aria. Anche ammettendo la validità della teoria, che ragioni abbiamo per credere che la teoria si possa applicare in pratica?
– Ritengo che vi siano ragioni molto valide. Gli uomini non si sono sempre serviti delle calcolatrici. Gli abitanti delle caverne, con le loro triremi, le loro scuri di pietra e le loro ferrovie, non avevano calcolatrici.
– E probabilmente non calcolavano nulla.
– Lei sa bene che non è così. Perfino la costruzione di una strada ferrata o di una ziggurat richiedeva dei calcoli, sia pure elementari, e questi calcoli venivano evidentemente eseguiti senza macchine.
– Lei intende dire che gli antichi calcolavano col metodo che lei mi ha dimostrato?
– Probabilmente no. È un fatto che questo metodo (a proposito, noi l’abbiamo battezzato “grafitica”, dalla vecchia parola europea “grafo”, cioè “scrivere”) deriva direttamente dalle calcolatrici, e dunque non può essere anteriore.
Tuttavia i cavernicoli dovevano pur avere un loro metodo, no?
– Arti perdute! Se lei mi vuol parlare delle arti perdute…
– No, no, io non sono un fanatico delle arti perdute, anche se non posso escludere che ce ne siano state. Dopo tutto, l’uomo mangiava grano anche prima dell’idroponica, e se i primitivi mangiavano grano dovevano per forza coltivarlo nel suolo. Che altro sistema potevano avere?
– Non lo so, ma crederò nella coltura in terra quando vedrò del grano crescere direttamente dal suolo. E crederò che si possa ottenere il fuoco strofinando due schegge di pietra quando lo vedrò fare sotto i miei occhi.
Shuman divenne suadente. – Comunque sia, torniamo alla grafitica. Secondo me, va considerata un aspetto del generale processo di eterealizzazione. Il trasporto mediante veicoli più o meno ingombranti sta cedendo il posto al trasferimento diretto. I mezzi di comunicazione tradizionali diventano sempre più maneggevoli ed efficienti. Provi per esempio a confrontare la sua calcolatrice tascabile con gli enormi cervelli elettronici di mille anni fa.
Perché non dovremmo fare l’ultimo passo su questa via, ed eliminare completamente le calcolatrici? Andiamo, il Progetto 63 è già in corso di realizzazione; già si registrano notevoli progressi. Ma abbiamo bisogno del suo aiuto. Se il patriottismo non basta a farle prendere una decisione, consideri la prodigiosa avventura intellettuale che ci sta di fronte.
Loesser disse in tono scettico: – Che progressi? Che potete fare oltre la moltiplicazione? Potete integrare una funzione trascendentale? – Col tempo arriveremo anche a questo. Durante il mese scorso ho imparato ad eseguire le divisioni. Sono in grado di determinare con assoluta precisione quozienti interi e quozienti decimali.
– Quozienti decimali? Con quanti decimali?
Il Programmatore Shuman si sforzò di dare alla sua voce un tono indifferente.
– Non ci sono limiti.
Loesser lo guardò sbalordito. – Senza calcolatrice?
– Mi ponga lei stesso un problema.
– Provi a dividere ventisette per tredici. Con sei decimali.
Cinque minuti dopo Shuman disse: – Due virgola zero sette sei nove due tre.
Loesser controllò il risultato. – Ma è straordinario. Le moltiplicazioni non mi avevano impressionato gran che, perché, insomma, comportano solo dei numeri interi, e avevo l’impressione che potesse trattarsi di un trucco. Ma i decimali…
– E questo non è tutto. Stiamo lavorando in una direzione che fino a questo momento è ancora segretissima e che, a rigore, non dovrei rivelare a nessuno.
Comunque… Stiamo per aprire una breccia nel fronte della radice quadrata.
– La radice quadrata?
– La cosa comporta naturalmente alcuni passaggi difficilissimi e ancora non disponiamo di tutti gli elementi, ma il Tecnico Aub, l’uomo che ha inventato la nuova scienza e che è dotato di una intuizione stupefacente, in questo campo, afferma di aver quasi risolto il problema. Ed è soltanto un Tecnico. Un uomo come lei, un matematico espertissimo e con un’intelligenza superiore, non dovrebbe trovare nessuna difficoltà.
– Radici quadrate – mormorò affascinato Loesser.
– Anche cubiche. Allora, possiamo considerarla dei nostri?
Loesser gli tese di scatto la mano. – D’accordo.

Il generale Weider camminava avanti e indietro a un’estremità del lungo salone, rivolgendosi ai suoi ascoltatori con i modi di un insegnante severo che ha di fronte una classe indisciplinata. Al generale non faceva né caldo né freddo che il suo pubblico fosse composto dagli scienziati civili che dirigevano il Progetto 63. Egli era il supervisore, la massima autorità, e tale si considerava in ogni attimo della sua giornata.
Disse: – Le radici quadrate sono una bellissima cosa. Personalmente, non sono capace ad estrarle e neppure capisco le operazioni relative, ma sono certamente una bellissima cosa. Tuttavia, il governo non può permettere che il Progetto si perda appresso a quelli che alcuni di voi chiamano gli aspetti fondamentali del problema. Sarete liberi di giocare con la grafitica e adoperarla in tutti i modi che vorrete quando la guerra sarà finita; ma adesso abbiamo da risolvere dei problemi pratici della massima importanza.
In un angolo il Tecnico Aub ascoltava con dolorosa attenzione. Non era più, naturalmente, un Tecnico; lo avevano sollevato dalle sue vecchie funzioni, e destinato al progetto, con un titolo altisonante e un lauto stipendio. Ma le differenze sociali restavano, e gli scienziati d’alto rango non avevano mai accondisceso ad ammetterlo nelle loro file su un piede di parità. Né, per rendere giustizia ad Aub, egli lo desiderava. Con loro si sentiva a disagio come loro con lui.
Il generale diceva: – Il nostro obiettivo è semplice, signori; sostituire la calcolatrice. Un’astronave che può navigare nello spazio senza avere a bordo un cervello elettronico può essere costruita in un tempo inferiore di cinque volte, e con una spesa inferiore di dieci volte, a una nave munita di calcolatrice. Se potessimo eliminare le calcolatrici saremmo in condizione di costruire delle flotte cinque, dieci volte più numerose di quelle di Deneb. E al di là di questo primo grande passo, io intravedo qualcosa di ancor più rivoluzionario; un sogno, per ora; ma in futuro io vedo il missile guidato dall’uomo! Tra il pubblico si diffuse un lungo mormorio.
Il generale proseguì. – Attualmente, la nostra più grave “strozzatura” è data dal fatto che i missili dispongono di una intelligenza limitata. La calcolatrice che li guida può non superare certe dimensioni e un certo peso, ed è per questo che trovandosi in una situazione imprevista, di fronte a un nuovo tipo di sbarramento anti-missile, i nostri apparecchi danno risultati così mediocri. Pochissimi, come sapete, raggiungono gli obiettivi, e la guerra missilistica è ormai una continua elisione; infatti il nemico è fortunatamente nelle stesse condizioni nostre. Mentre un missile avente a bordo uno o due uomini, in grado di dirigere il volo mediante la grafitica, sarebbe molto più leggero, più mobile, più intelligente. Ci darebbe quel margine di superiorità che ci porterà alla vittoria. Inoltre, signori, le esigenze della guerra ci obbligano a tener presente anche un altro punto. Un uomo è uno strumento infinitamente più economico di una calcolatrice. I missili con equipaggio umano potrebbero essere lanciati in numero tale e in tali circostanze quali nessun generale sano di mente oserebbe mai prendere in considerazione se avesse a sua disposizione soltanto dei missili automatici…
Disse ancora molte altre cose, ma il Tecnico Aub aveva sentito abbastanza.
Nell’intimità della sua stanza, il Tecnico Aub passò molto tempo a correggere e ricorreggere la lettera che intendeva lasciare. Il testo definitivo, quando lo rilesse, suonava così:

Quando cominciai a studiare la scienza che oggi si chiama grafitica, la consideravo alla stregua di un passatempo privato. Non vedevo, in essa, altro che un divertimento stimolante, un esercizio mentale.
Quando il Progetto 63 venne istituito, io ritenevo che i miei superiori vedessero più lontano di me; che la grafitica potesse essere messa al servizio dell’umanità, potesse contribuire, per esempio, alla realizzazione di congegni veramente pratici per il trasporto individuale. Ma ora capisco che sarà usata solo per spargere morte e distruzione.
Non posso sopravvivere alla responsabilità di aver inventato la grafitica.

Lentamente, diresse verso se stesso un depolarizzatore delle proteine e, senza provare alcun dolore, cadde istantaneamente fulminato.

Erano tutti raccolti, sull’attenti, intorno alla tomba del piccolo Tecnico, mentre veniva reso omaggio alla grandezza della sua scoperta. Il Programmatore Shuman chinò solennemente il capo insieme agli altri, ma non era commosso. Il Tecnico aveva fatto la sua parte, e ormai non c’era più bisogno di lui. Certo, era stato lui a inventare la grafitica, ma ora che la nuova scienza aveva messo le ali, avrebbe continuato da sola, di trionfo in trionfo, fino al giorno in cui i missili avrebbero solcato gli spazi guidati dall’uomo. E oltre ancora.
Nove volte sette, pensò Shuman con profonda contentezza, fa sessantatré, e non ho bisogno che me lo venga a dire una calcolatrice. La calcolatrice ce l’ho nella testa.

E questo gli dava un senso di potenza davvero esaltante.

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Written by filippo

7 giugno 2013 at 10:36 PM

Racconto “Una vecchia storia”

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Fiera del Libro della Romagna

A sorpresa ho scoperto che il mio racconto “Una vecchia storia” è stato selezionato nel Concorso letterario indetto dalla Fiera del libro della Romagna in collaborazione con Scrivendo Volo e sarà pubblicato nell’antologia “Romagna scrive”.

La premiazione è prevista per domenica 14 aprile, alle ore 11.00, presso il Palazzo del Ridotto a Cesena.

In realtà non sono uno scrittore.

Ho prodotto solo alcuni racconti brevi nei primi anni 2000; già una volta avevo iscritto un racconto, “La mia stella”, ad un concorso ed ero arrivato fra i finalisti, nella categoria “Miglior personaggio maschile”, guadagnandomi la pubblicazione in un’antologia di racconti erotici (il primo e unico che mi sia capitato di scrivere, anche se non lo definirei erotico).

Non sarò mai uno scrittore, ma ogni tanto vedere questi riconoscimenti, pur non essendo il Premio Pulitzer, mi ruba 10 minuti nei quali penso a come sarebbe essere veramente uno scrittore.

Fonte

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Written by filippo

11 aprile 2013 at 11:20 am

Pubblicato su Libri, Vita personale

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Philip Roth non scriverà più

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La conferma dal suo editore
Lo scrittore, da sempre candidato al Nobel per la letteratura, lo aveva annunciato un mese fa: “Nemesi è stato il mio ultimo libro”. Ora la sua casa editrice ribadisce che le parole sul ritiro non era solo uno sfogo.

NEW YORK – Ora l’ha confermato anche il suo editore. Philip Roth, una delle più grandi voci della letteratura statunitense e mondiale, smetterà di scrivere. Lo aveva annunciato lo stesso scrittore in un’intervista a un giornale francese. Ora c’è una nuova tappa di questo lungo addio. Le parole dell’editore, Houghton Mifflin. “Philip mi ha detto che è vero”, ha raccontato Lori Glazer, vicepresidente della casa editrice: “Nemesi è stato il suo ultimo libro”.

Roth, che ha 79 anni, ha al suo attivo oltre 25 romanzi da ‘Goodbye, Columbus’ a ‘Lamento di Portnoy’ fino alla Trilogia americana e alla “Macchia umana”, opere famosissime che però non gli hanno mai fatto vincere il premio Nobel per cui più volte era stato considerato un candidato sicuro. Lo scrittore aveva invece vinto il Pulitzer per “Pastorale Americana” del 1997 e due National Book Award.

Nell’intervista al giornale francese “Les Inrocks” lo scrittore aveva confidato di aver sempre trovato difficile il suo mestiere e di aver deciso di non avere più a che fare con i libri: “Ho fatto il meglio che potevo con quello che avevo”, aveva detto, spiegando che un nuovo libro non avrebbe potuto aggiungere nulla a tutto ciò che aveva già scritto. Roth aveva aggiunto che all’età di 74 anni aveva cominciato a rileggere tutti i suoi libri preferiti, da Ernest Hemingway a Ivan Turgenev, poi si era tuffato nelle sue creazioni: “Volevo vedere se avevo sprecato tempo. Ho dedicato tutta la mia vita a scrivere sacrificando tutto il resto. Ora basta. L’idea di cercare di scrivere di nuovo è impossibile”, aveva detto.

La sua ultima opera, ‘Nemesis’, parla di fallimento e vecchiaia. Roth lo ha ambientato nel New Jersey nel periodo della seconda guerra mondiale. All’epoca dei fatti raccontati, lo scrittore aveva undici anni: passati sessant’anni, aveva ancora vivo il ricordo della tragica epidemia di poliomielite che sconvolse le vite e le psicologie di almeno due generazioni.

Fonte

Un estratto da ‘Lamento di Portnoy’:

“Poi arrivò l’adolescenza. Trascorrevo metà della mia vita da sveglio chiuso a chiave nel bagno, spremendomi il pisello nella tazza del gabinetto o nei panni sporchi del portabiancheria, o s-ciàcc, contro lo specchio dell’armadietto dei medicinali, di fronte al quale stavo ritto con le brache calate per vedere com’era quando schizzava fuori. Oppure mi piegavo in due sopra il pugno in azione, con gli occhi chiusi e la bocca ben spalancata, per ricevere quella salsa appiccicosa di panna e Cif Ammoniacal sulla lingua e i denti; sebbene non di rado, nella mia cieca estasi, me la beccassi tutta sui riccioli, come un’esplosione di Tricofilina. Attraverso un mondo di fazzoletti sgualciti e kleenex appallottolati e pigiama macchiati, agitavo il mio pene turgido e infiammato, nell’eterno terrore che la mia schifosità venisse scoperta e qualcuno mi piombasse addosso proprio nell’istante frenetico in cui deponevo il mio carico. Nonostante ciò, ero del tutto incapace di tenermi le zampe lontane dal batacchio, una volta che cominciava a salirmi su per la pancia. Nel bel mezzo di una lezione alzavo la mano per chiedere il permesso, mi precipitavo ai gabinetti e con dieci o quindici botte selvagge mi masturbavo in piedi davanti a un orinale. Allo spettacolo del sabato pomeriggio, lasciavo i miei amici per andare al distributore di caramelle, poi mi appartavo in un angolo vuoto del cinema e schizzavo il mio seme nell’incarto vuoto di una tavoletta di Mounds. Durante una gita del nostro gruppetto familiare estrassi il torsolo di una mela, notai stupito (e sull’onda della mia ossessione) a cosa somigliava, e corsi nella boscaglia per stendermi sull’orifizio del frutto, fantasticando che quel forame fresco e farinoso si trovasse in realtà ubicato tra le cosce della mitica entità che mi chiamava sempre Maschione, quando pietiva qualcosa che nessuna ragazza nell’arco della storia aveva mai ricevuto. «Ah, Maschione, ficcamelo dentro» rantolava la mela cavata che mi sbattei come uno scemo durante quel picnic. «Maschione, Maschione, sì, dammelo tutto» implorava la bottiglia vuota del latte che tenevo nascosta in un ripostiglio del seminterrato, da infilare vigorosamente dopo la scuola con il mio pinnacolo invaselinato. «Vieni, Maschione, vieni» gridava impazzita la bistecca di fegato che, nella mia insania, avevo comprato un pomeriggio dal macellaio e, ci creda o no, violentato dietro un cartellone mentre andavo a lezione per il bar mitzvah. Fu al termine del primo anno del liceo – nonché primo anno di masturbazione – che mi scoprii sulla parte inferiore del pene, proprio dove il canale incontra la testa, una macchiolina scolorita successivamente diagnosticata come efelide. Cancro. Mi ero provocato il cancro. Tutto quel tirarmi e strapazzarmi la carne, tutto quello sfregamento, mi aveva procurato un male incurabile. E non ero ancora quattordicenne! Di notte, a letto, le lacrime mi rigavano le guance. «No!» singhiozzavo. «Non voglio morire! Per carità… no!». Ma poi, visto che comunque sarei diventato un cadavere entro breve tempo, proseguii secondo abitudine e continuai a tirarmi le seghe dentro un calzino. Avevo cominciato a portarmi a letto le calze sporche, in modo da usarne una come ricettacolo serale e l’altra al momento del risveglio. Se soltanto fossi riuscito a contenere i rasponi a uno al giorno, o stabilizzarmi sui due, massimo tre! Ma con la prospettiva dell’oblivione in agguato, cominciai ad accumulare nuovi primati personali. Prima dei pasti. Dopo i pasti. Durante i pasti. A cena balzo in piedi afferrandomi tragicamente la pancia: diarrea! urlo, ho un attacco di diarrea!, e appena chiusa a chiave la porta del bagno, mi infilo sulla testa un paio di mutande sottratte al guardaroba di mia sorella e tenute in tasca arrotolate in un fazzoletto. L’effetto delle mutandine di cotone sulla mia bocca è così galvanizzante – la parola «mutandine» è così galvanizzante che la traiettoria della mia eiaculazione raggiunge nuove, sensazionali altezze: decollando dalla fava come un missile prende la rotta per la lampadina soprastante dove, con mio orripilato stupore, si spiaccica spenzolante. Sulle prime mi copro disperatamente il capo aspettandomi una pioggia di vetri, un’esplosione di fiamme (il disastro, vede, non è mai lontano dai miei pensieri). Poi, con la massima calma possibile, monto sul calorifero per rimuovere quel coagulo sfrigolante con una pallottola di carta igienica. Avvio una scrupolosa ispezione alle tende della doccia, alla vasca da bagno, al pavimento piastrellato, ai quattro spazzolini – Dio ci scampi! – e proprio quando sto per aprire la porta convinto di avere coperto le mie tracce, il cuore mi balza in gola alla vista dello scaracchio che mi imbratta la punta della scarpa. Sono il Raskolnikov delle pugnette: la collosa evidenza è ovunque! Ce l’ho anche sui polsini? nei capelli? nelle orecchie? Mi chiedo tutto ciò mentre torno al tavolo di cucina, borbottando con aria di dignità offesa quando mio padre apre la bocca piena di marmellata rossa per dire: «Non capisco perché ti chiudi a chiave. Va al di là della mia comprensione. Che è questa, una casa o la Stazione Centrale?». «… privacy… un essere umano… qui dentro mai» ribatto, poi spingo da parte il mio dessert e strillo: «Non mi sento bene… mi lascereste in pace, tutti quanti?». Dopo il dessert – lo finisco perché succede che mi piaccia anche se detesto loro – dopo il dessert torno di nuovo in bagno. Frugo nei panni sporchi della settimana finché trovo uno dei reggiseni di mia sorella. Lego una spallina alla maniglia della porta, l’altra a quella dell’armadietto degli asciugamani: uno spaventapasseri per coltivare nuovi sogni. «Oh, ménatelo, Maschione, fattelo rosso…», così vengo incalzato dalle coppette del reggiseno di Hannah, quando un giornale arrotolato picchia sulla porta. Io e il contenuto della mia mano facciamo un balzo sull’asse del gabinetto. «Dài, lascia sedere anche qualcun altro su quella tazza» dice mio padre. «È una settimana che ho !’intestino bloccato». Recupero il sangue freddo, esercizio in cui sono impagabile, con uno scoppio di indignazione. «Ho una diarrea spaventosa! Non ha nessun significato in questa casa?»… riprendendo contemporaneamente a menarmelo, anzi accelerando il ritmo mentre il mio organo canceroso ricomincia miracolosamente a rimettere fuori la testa. Poi il reggiseno di Hannah inizia a muoversi. A ondeggiare qua e là! Mi copro gli occhi, e toh! Lenore Lapidus! che ha le tette più grosse della classe; quando corre all’autobus dopo la scuola, il suo grande intangibile carico ondeggia pesante all’interno della camicia, oh le faccio sgusciare dalle coppe ed ecco le autentiche poppe di Lenore Lapidus, e nella medesima frazione di secondo realizzo che mia madre sta scuotendo vigorosamente la maniglia. E dài e dài mi sono finalmente dimenticato di chiuderla a chiave! Sapevo che un giorno sarebbe successo! Beccato! come dire morto!”

Written by filippo

11 novembre 2012 at 9:22 PM

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Walter Bonatti, Una vita libera

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Walter Bonatti, Una vita libera

Walter Bonatti, Una vita libera

Rossana Podestà fin da giovanissima viene lanciata nel firmamento cinematografico mondiale da film mitologici come “Ulisse” con Kirk Douglas e il kolossal “Elena di Troia” per il quale nel 1956 ottiene la parte da protagonista superando la concorrenza di attrici come Liz Taylor e Ava Gardner.

Segue una carriera bellissima che la vede passare da “Guardie e ladri” con Totò al filone di “Sette uomini d’oro”, fino ad una serie di fortunate commedie dirette, negli anni Settanta, dall’ex marito Marco Vicario.

“Ho fatto l’attrice per caso perché volevo comprarmi una Vespa” – confessa – “purtroppo è un mestiere fatto di sabbie mobili, dalle quali, una volta che vi si rimane invischiati, è difficile liberarsi. Vicario mi ha spinto a fare un filone di film commerciali ed io mi sono disamorata del cinema. Sono convinta che avrei potuto fare molto di più rispetto ai ruoli che mi richiedevano di bella ragazza che si limitava a dire, più o meno bene, delle battute”.

Un viso illuminato da una gioiosa serenità quello di Rossana Podestà ancora oggi.
Per capirne il motivo bastava seguirne lo sguardo e vedere con quale tenerezza sfoglia e osserva, il libro fotografico su Walter Bonatti, Suo compagno di tanti anni, da Lei curato ed edito da Rizzoli.

“Walter Bonatti. Una vita libera” questo il titolo del volume.

Nel 1980 un giornalista Le chiese con chi avrebbe voluto fuggire su un’isola deserta.
Lei rispose senza esitazione “con Walter Bonatti, è il mio Mito perché riesce a vivere libero, come anche a me piacerebbe vivere”.
Dopo qualche tempo Bonatti Le scrisse una lettera nella quale si dichiarava pronto a fuggire con Lei in quell’isola deserta.
“Ne conosco tante di isole deserte” – aggiungeva.
Decisero di incontrarsi dandosi un appuntamento a Roma davanti all’Ara Coeli.
Solo che all’orario stabilito Bonatti non arrivò.
All’epoca non c’erano ancora i cellulari, per cui l’attesa di prolungò, finché due ore dopo a Rossana venne un sospetto e, girato l’angolo, lo vide davanti all’Altare della Patria, che aveva confuso con l’Ara Coeli, intento a difendere la posizione da un nuvolo di vigili che volevano che spostasse l’auto.

“Ma che razza di esploratore sei se non riesci neppure a trovare una persona a Roma”lo ammonì scherzosamente.
Inizia in questo modo un grande amore che la Podestà descrive oggi con parole incantate.
“Walter ha riempito tutti i miei sogni” ricorda “tra noi si era creata una rara alchimia cementata dalle avventure condivise in tutto il mondo”.
Ma una norma assurda ha vietato a Rossana di assistere lo scorso anno il suo compagno in punto di morte.

“Mi hanno allontanata dalla rianimazione dicendo: tanto lei non è la moglie. Eppure , non ce n’è mai fregato niente di sposarci, era altro quello che ci ha uniti. Per l’ospedale dove Walter era ricoverato” – confida Rossana – “questo era un problema, così come lo è per la legge italiana. È possibile che una persona già schiacciata dal dolore venga trattata in questo modo?”.

Walter Bonatti, leggenda dell’alpinismo mondiale, si è spento a Roma il 14 settembre dello scorso anno.
Rossana era tra i pochissimi a sapere della sua malattia.
Sapeva che il cancro al pancreas era all’ultimo stadio da tre mesi.
“Mi sono presa la responsabilità di tacere” ? ricorda – “temevo che Walter non volesse aspettare in un letto la propria agonia, avevo il terrore che potesse decidere la sua morte da solo”.
Avevano fatto un grande viaggio di 3.800 chilometri nei deserti di Libia, Sudan e Egitto.
Ma Bonatti, l’uomo che da solo aveva girato il mondo intero nei luoghi più nascosti e impervi, sembrava assente, come rapito da un pensiero lontano.

“Mi era sembrato strano” – ricorda ancora Rossana – “Non era mai stato malato e dopo il ritorno incominciò ad accusare dolori, diventati poi violenti all’inizio dell’estate. Le analisi, poi la diagnosi come un verdetto di morte imminente, senza speranza”.
“Il fatto di non potergli dare conforto, di tenergli la mano, è stato terribile” ricorda ancora – “l’hanno fatto soffrire, senza dargli l’ossigeno. Una cosa intollerabile, che non potrò mai dimenticare e che credo sia possibile solo qui in Italia”.

Parole amare, durissime, una ferita mai chiusa che stimolano una profonda riflessione sul tema dei diritti delle coppie di fatto e del diritto a una morte dolce.
Un triste congedo, quello di Bonatti, ma una vita straordinaria di esploratore ai confini dell’uomo e del mondo, sempre alla ricerca di nuove sfide che, ogni volta, alzavano la soglia dei limiti, delle paure, dei luoghi comuni.

Non solo grandissimo alpinista, ma anche esploratore e giornalista quando ritenne che la sfida con le montagne era finita, che il mondo era più grande e che si poteva conoscerlo non solo andando in alto ma anche attraversandolo nei suoi luoghi più sconosciuti e affascinanti.
Bonatti è sempre stato un uomo cristallino, uno spirito libero e coerente.

“Quando prendeva una decisione andava dritto, ti potevi fidare, sapevi dove andava e dove ti portava” ricorda Rossana.
Nel bellissimo e curato libro fotografico il potersi fidare, il condividere assieme passioni e nuove avventure viene raccontato con dolcezza, unitamente alla meravigliosa storia d’amore tra Walter e Rossana: lui grande alpinista, Lei attrice, due mondi quasi incompatibili incrociatisi quasi per magia. Sembra una favola, un romanzo.

Ci sono foto bellissime, viaggi nei deserti più lontani, nei posti più sconosciuti.
“Con lui ho imparato ad arrampicarmi” scrive Rossana – “a conoscere la natura, questo nostro mondo straordinario. Non è stato facile. Walter era un uomo pubblico, con una dimensione privata che voleva trasmettere. Per farlo, col cuore pieno di emozione, ho dovuto cercare nei suoi cassetti. Ho trovato foto bellissime, ricordi, oggetti, che lo hanno accompagnato. Una miniera di sorprese, tante scintille di vita”.

Donna fuori dal comune, Rossana Podestà.
Leggera, ironica, fresca e dolce.
Quando parla di Bonatti e delle loro schermaglie sentimentali, non si può fare a meno di sorridere.
Walter è stato un uomo coerente, trasparente come pochi.

Fonte: youreporter.it

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Written by filippo

15 ottobre 2012 at 5:50 PM

Perchè Blockbuster è fallito

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Perchè Blockbuster è fallito

[…] Era successo tutto in un batter d’occhio, come in un incubo. Aveva riportato le cassette e lo avevano interrogato e lo avevano torturato e lo avevano picchiato e gli avevano fatto confessare crimini mai commessi e lo avevano gettato…
Dove?
Dove cazzo lo avevano gettato?
Cos’era quel posto? Era completamente buio. E sembrava molto vasto. Le sue urla rimbombavano contro pareti distanti. Come se fosse in una cisterna vuota, una fottuta prigione sotterranea, una di quelle segrete che stanno sotto alla Bastille.

– Aiuto! Aiuto! – urlava. – Qualcuno mi aiuti!
Era solo. E comprese che nessuno lo avrebbe mai sentito. Sopra di lui, a parecchi metri, ci doveva essere un soffitto e sopra un pavimento e sopra ancora la folta e fonoassorbente moquette di Blockbuster. In quel momento, sopra di lui, c’era gente rispettabile, brave persone che affittavano Il silenzio degli innocenti, Il buono, il brutto e il cattivo, L’ira di Khan, incoscienti che un poveraccio era stato sequestrato, gettato in una segreta.
– Vi prego… Un po’ di pietà, – mormorò disperato.
– È cosí. Sei pfinito tra i dannati. Non c’è pfietà per i dannati –. Una voce rauca e bassa gli rispose.
– C’è qualcuno? C’è qualcuno? – Riccardi cominciò a cercarsi nelle tasche. Le chiavi. Il portafoglio. Le sigarette. L’accendino.
L’accendino!
Con le mani che gli tremavano provò piú volte prima di riuscire ad accendere la fiamma.
La flebile fiammella non riuscí ad attraversare le tenebre peste. Vide solo che a terra c’era cemento.
– Chi ha parlato? Dove sei?
– Pfiamo qua. Ma ti pfego, spfenni quella luce, ci fa male agli occhi.
Antonio Riccardi avanzò verso quella voce strana. Sembrava la voce di un vecchio o di un bambino, non si capiva. Vide delle sagome emergere dal buio. Non era uno solo. Erano molti. Erano buttati a terra, uno accanto all’altro, come un branco di macachi nella gabbia di uno zoo. Appena la luce gli trafisse le pupille cominciarono a stringersi di piú e a coprirsi gli occhi con le mani.
Cos’erano? Dei mostri?
Erano completamente bianchi, albini. Avevano i capelli lunghi, sporchi, le barbe crespe, erano avvolti in panni lerci, puzzavano come carogne. Riccardi ebbe l’impressione di essere finito nella caverna dei lebbrosi. Ma non erano lebbrosi. Erano pingui, obesi. Le donne avevano le mani gonfie come cadaveri putrefatti. La maggior parte non aveva piú denti, ad alcuni ne erano rimasti un paio, ma erano marci e cariati.
– Chi siete? Che ci fate qui? – domandò Riccardi.
Il vecchio che aveva parlato prima e che sembrava il capo si mise faticosamente in piedi. Doveva pesare centocinquanta chili. – Le domande le pfacciamo noi. Tu pferché sei qui?
– Mi hanno buttato qui dentro perché ho rotto delle cassette.
– Quante?
– Una ventina…
– Grave. Molto grave. Pensa che io sono qui perché per sei volte non ho riavvolto le cassette.
Una donna accucciata disse: – Io perché il videoregistratore si è mangiato Salvate il soldato Ryan. Era una novità.
– Io perché ho riconsegnato per tre volte le scatole vuote, – disse un altro che aveva intorno agli occhi delle croste e delle perle di pus.
– Ma io ti conosco… – Riccardi fece due passi avanti.
– Tu sei Lorenzo Pavolini… Stavamo in classe insieme al liceo. Ero convinto che fossi morto. Dicevano che eri scomparso. Hanno fatto una puntata di Chi l’ha visto? su di te. Da quanti anni stai qua?
– Non lo so. Abbiamo perso il conto del tempo. Da un’infinità.
– Perché siete ridotti cosí?
– Mangiamo solo dolciumi, merendine, biscotti al cioccolato, popcorn, lecca lecca, gelato. Ogni tanto qualche Bella Napoli. Beviamo solo Coca-Cola, Sprite e Fanta. Le cose che vendono sopra. Tutta questa roba che ci ha aumentato a livelli incredibili il tasso di glicemia e il colesterolo. I denti ci si sono cariati e sono caduti. Molti di noi sono diventati diabetici. E la mancanza di luce ci ha depigmentato la pelle. Siamo esseri mutanti, il nostro dna si è modificato. Questa è la punizione per non aver trattato bene quello che Blockbuster ci aveva dato.
Riccardi scoprí cosí che quegli esseri che prima erano stati gente normale vivevano nelle tenebre, rischiarate una volta al giorno dalle novità di Blockbuster. Una finestrella si apriva e ogni giorno veniva proiettato un nuovo film. Conoscevano tutti i film di Demi Moore, Tom Cruise, Sandra Bullock, Christian De Sica, erano i loro dèi, che pregavano chiedendo pietà. A loro si prostravano e domandavano di essere lasciati liberi. Ma gli dèi se ne fottevano. Appena finiva il film, le tenebre tornavano. […]

– Niccolò Ammaniti, “L’amico di Jeffrey Dahmer è l’amico mio”, Il momento è delicato

Written by filippo

20 Maggio 2012 at 7:31 PM

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