Philip Roth non scriverà più
La conferma dal suo editore
Lo scrittore, da sempre candidato al Nobel per la letteratura, lo aveva annunciato un mese fa: “Nemesi è stato il mio ultimo libro”. Ora la sua casa editrice ribadisce che le parole sul ritiro non era solo uno sfogo.
NEW YORK – Ora l’ha confermato anche il suo editore. Philip Roth, una delle più grandi voci della letteratura statunitense e mondiale, smetterà di scrivere. Lo aveva annunciato lo stesso scrittore in un’intervista a un giornale francese. Ora c’è una nuova tappa di questo lungo addio. Le parole dell’editore, Houghton Mifflin. “Philip mi ha detto che è vero”, ha raccontato Lori Glazer, vicepresidente della casa editrice: “Nemesi è stato il suo ultimo libro”.
Roth, che ha 79 anni, ha al suo attivo oltre 25 romanzi da ‘Goodbye, Columbus’ a ‘Lamento di Portnoy’ fino alla Trilogia americana e alla “Macchia umana”, opere famosissime che però non gli hanno mai fatto vincere il premio Nobel per cui più volte era stato considerato un candidato sicuro. Lo scrittore aveva invece vinto il Pulitzer per “Pastorale Americana” del 1997 e due National Book Award.
Nell’intervista al giornale francese “Les Inrocks” lo scrittore aveva confidato di aver sempre trovato difficile il suo mestiere e di aver deciso di non avere più a che fare con i libri: “Ho fatto il meglio che potevo con quello che avevo”, aveva detto, spiegando che un nuovo libro non avrebbe potuto aggiungere nulla a tutto ciò che aveva già scritto. Roth aveva aggiunto che all’età di 74 anni aveva cominciato a rileggere tutti i suoi libri preferiti, da Ernest Hemingway a Ivan Turgenev, poi si era tuffato nelle sue creazioni: “Volevo vedere se avevo sprecato tempo. Ho dedicato tutta la mia vita a scrivere sacrificando tutto il resto. Ora basta. L’idea di cercare di scrivere di nuovo è impossibile”, aveva detto.
La sua ultima opera, ‘Nemesis’, parla di fallimento e vecchiaia. Roth lo ha ambientato nel New Jersey nel periodo della seconda guerra mondiale. All’epoca dei fatti raccontati, lo scrittore aveva undici anni: passati sessant’anni, aveva ancora vivo il ricordo della tragica epidemia di poliomielite che sconvolse le vite e le psicologie di almeno due generazioni.
Un estratto da ‘Lamento di Portnoy’:
“Poi arrivò l’adolescenza. Trascorrevo metà della mia vita da sveglio chiuso a chiave nel bagno, spremendomi il pisello nella tazza del gabinetto o nei panni sporchi del portabiancheria, o s-ciàcc, contro lo specchio dell’armadietto dei medicinali, di fronte al quale stavo ritto con le brache calate per vedere com’era quando schizzava fuori. Oppure mi piegavo in due sopra il pugno in azione, con gli occhi chiusi e la bocca ben spalancata, per ricevere quella salsa appiccicosa di panna e Cif Ammoniacal sulla lingua e i denti; sebbene non di rado, nella mia cieca estasi, me la beccassi tutta sui riccioli, come un’esplosione di Tricofilina. Attraverso un mondo di fazzoletti sgualciti e kleenex appallottolati e pigiama macchiati, agitavo il mio pene turgido e infiammato, nell’eterno terrore che la mia schifosità venisse scoperta e qualcuno mi piombasse addosso proprio nell’istante frenetico in cui deponevo il mio carico. Nonostante ciò, ero del tutto incapace di tenermi le zampe lontane dal batacchio, una volta che cominciava a salirmi su per la pancia. Nel bel mezzo di una lezione alzavo la mano per chiedere il permesso, mi precipitavo ai gabinetti e con dieci o quindici botte selvagge mi masturbavo in piedi davanti a un orinale. Allo spettacolo del sabato pomeriggio, lasciavo i miei amici per andare al distributore di caramelle, poi mi appartavo in un angolo vuoto del cinema e schizzavo il mio seme nell’incarto vuoto di una tavoletta di Mounds. Durante una gita del nostro gruppetto familiare estrassi il torsolo di una mela, notai stupito (e sull’onda della mia ossessione) a cosa somigliava, e corsi nella boscaglia per stendermi sull’orifizio del frutto, fantasticando che quel forame fresco e farinoso si trovasse in realtà ubicato tra le cosce della mitica entità che mi chiamava sempre Maschione, quando pietiva qualcosa che nessuna ragazza nell’arco della storia aveva mai ricevuto. «Ah, Maschione, ficcamelo dentro» rantolava la mela cavata che mi sbattei come uno scemo durante quel picnic. «Maschione, Maschione, sì, dammelo tutto» implorava la bottiglia vuota del latte che tenevo nascosta in un ripostiglio del seminterrato, da infilare vigorosamente dopo la scuola con il mio pinnacolo invaselinato. «Vieni, Maschione, vieni» gridava impazzita la bistecca di fegato che, nella mia insania, avevo comprato un pomeriggio dal macellaio e, ci creda o no, violentato dietro un cartellone mentre andavo a lezione per il bar mitzvah. Fu al termine del primo anno del liceo – nonché primo anno di masturbazione – che mi scoprii sulla parte inferiore del pene, proprio dove il canale incontra la testa, una macchiolina scolorita successivamente diagnosticata come efelide. Cancro. Mi ero provocato il cancro. Tutto quel tirarmi e strapazzarmi la carne, tutto quello sfregamento, mi aveva procurato un male incurabile. E non ero ancora quattordicenne! Di notte, a letto, le lacrime mi rigavano le guance. «No!» singhiozzavo. «Non voglio morire! Per carità… no!». Ma poi, visto che comunque sarei diventato un cadavere entro breve tempo, proseguii secondo abitudine e continuai a tirarmi le seghe dentro un calzino. Avevo cominciato a portarmi a letto le calze sporche, in modo da usarne una come ricettacolo serale e l’altra al momento del risveglio. Se soltanto fossi riuscito a contenere i rasponi a uno al giorno, o stabilizzarmi sui due, massimo tre! Ma con la prospettiva dell’oblivione in agguato, cominciai ad accumulare nuovi primati personali. Prima dei pasti. Dopo i pasti. Durante i pasti. A cena balzo in piedi afferrandomi tragicamente la pancia: diarrea! urlo, ho un attacco di diarrea!, e appena chiusa a chiave la porta del bagno, mi infilo sulla testa un paio di mutande sottratte al guardaroba di mia sorella e tenute in tasca arrotolate in un fazzoletto. L’effetto delle mutandine di cotone sulla mia bocca è così galvanizzante – la parola «mutandine» è così galvanizzante che la traiettoria della mia eiaculazione raggiunge nuove, sensazionali altezze: decollando dalla fava come un missile prende la rotta per la lampadina soprastante dove, con mio orripilato stupore, si spiaccica spenzolante. Sulle prime mi copro disperatamente il capo aspettandomi una pioggia di vetri, un’esplosione di fiamme (il disastro, vede, non è mai lontano dai miei pensieri). Poi, con la massima calma possibile, monto sul calorifero per rimuovere quel coagulo sfrigolante con una pallottola di carta igienica. Avvio una scrupolosa ispezione alle tende della doccia, alla vasca da bagno, al pavimento piastrellato, ai quattro spazzolini – Dio ci scampi! – e proprio quando sto per aprire la porta convinto di avere coperto le mie tracce, il cuore mi balza in gola alla vista dello scaracchio che mi imbratta la punta della scarpa. Sono il Raskolnikov delle pugnette: la collosa evidenza è ovunque! Ce l’ho anche sui polsini? nei capelli? nelle orecchie? Mi chiedo tutto ciò mentre torno al tavolo di cucina, borbottando con aria di dignità offesa quando mio padre apre la bocca piena di marmellata rossa per dire: «Non capisco perché ti chiudi a chiave. Va al di là della mia comprensione. Che è questa, una casa o la Stazione Centrale?». «… privacy… un essere umano… qui dentro mai» ribatto, poi spingo da parte il mio dessert e strillo: «Non mi sento bene… mi lascereste in pace, tutti quanti?». Dopo il dessert – lo finisco perché succede che mi piaccia anche se detesto loro – dopo il dessert torno di nuovo in bagno. Frugo nei panni sporchi della settimana finché trovo uno dei reggiseni di mia sorella. Lego una spallina alla maniglia della porta, l’altra a quella dell’armadietto degli asciugamani: uno spaventapasseri per coltivare nuovi sogni. «Oh, ménatelo, Maschione, fattelo rosso…», così vengo incalzato dalle coppette del reggiseno di Hannah, quando un giornale arrotolato picchia sulla porta. Io e il contenuto della mia mano facciamo un balzo sull’asse del gabinetto. «Dài, lascia sedere anche qualcun altro su quella tazza» dice mio padre. «È una settimana che ho !’intestino bloccato». Recupero il sangue freddo, esercizio in cui sono impagabile, con uno scoppio di indignazione. «Ho una diarrea spaventosa! Non ha nessun significato in questa casa?»… riprendendo contemporaneamente a menarmelo, anzi accelerando il ritmo mentre il mio organo canceroso ricomincia miracolosamente a rimettere fuori la testa. Poi il reggiseno di Hannah inizia a muoversi. A ondeggiare qua e là! Mi copro gli occhi, e toh! Lenore Lapidus! che ha le tette più grosse della classe; quando corre all’autobus dopo la scuola, il suo grande intangibile carico ondeggia pesante all’interno della camicia, oh le faccio sgusciare dalle coppe ed ecco le autentiche poppe di Lenore Lapidus, e nella medesima frazione di secondo realizzo che mia madre sta scuotendo vigorosamente la maniglia. E dài e dài mi sono finalmente dimenticato di chiuderla a chiave! Sapevo che un giorno sarebbe successo! Beccato! come dire morto!”
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