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John Fante, La confraternita dell’uva (4° parte)

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John Fante, La confraternita dell’uva

Poi accadde. Una sera, mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Reggevo il suo libro tra le mani e tremavo mentre mi parlava dell’uomo e del mondo, d’amore e di saggezza, di delitto e di castigo, e capii che non sarei mai più stato lo stesso. Il suo nome era Fëdor Michailovich Dostoevskij. Ne sapeva più lui di padri e figli di qualsiasi uomo al mondo, e così di fratelli e sorelle, di preti e mascalzoni, di colpa e di innocenza.
Dostoevskij mi cambiò. “L’idiota”, “I demoni”, “I fratelli Karamazov”, “Il giocatore”. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. L’odio per mio padre si sciolse. Amavo mio padre, povero disgraziato sofferente e perseguitato. Amavo anche mia madre, e tutta la mia famiglia. Era tempo di diventare uomo, di lasciare San Elmo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere.

[…]

Domenica di Pasqua. Avevo dodici anni. Eravamo, tutta la famiglia, alla fattoria dei Santucci: orde di italiani venuti da tutta la contea, lunghe tavolate subissate di vino, pasta, insalata, capretto arrosto, e il mio vecchio con la testa d’un capretto nel proprio piatto, intento a mangiarsene il cervello e gli occhi, ridendosela di gusto mentre esibiva il trofeo al cospetto delle donne che strillavano per l’orrore. E dopo, una partita di softball. Qualcuno fece finire la palla oltre la siepe, in un campo più in là. Io, per inseguirla, feci un salto e atterrai su mio padre il quale, nascosto nell’erba alta, con quel suo culone bianco come una luna invernale, si stava pompando la signora Santucci, che poi sarebbe stata la migliore amica di mia madre. Sbalordito, me la diedi a gambe verso il frutteto, al di là del torrente, giù per il boschetto di peri. Mio padre mi venne dietro di corsa. Io ero veloce come un daino, e pensavo che non mi avrebbe mai preso, invece ci riuscì. Mi diede uno scossone. Dalla furia stava sputando: – Dì una sola parola a tua madre e perdio ti uccido!
Il resto di quel lungo pomeriggio lo trascorsi al fianco di mia madre impegnata a far pettegolezzi con le altre signore sul prato. Non volevo lasciarla. Stavo seduto sull’erba, stretto all’orlo della sua gonna, cosa che finì per infastidirla. – Và a giocare con gli altri ragazzini, – disse, – mi stai annoiando.

[…]

La portai sulla soletta. Lui con la cazzuola stese uno strato di malta e tolse la pietra dalla mia presa. Ecco il momento della verità. Paonazzo, con gli occhi che stavano per schizzargli fuori dalle orbite, lasciò andare la presa e cadde sulle ginocchia. Riprovò. Stavolta riuscì a sistemare la pietra sulla malta, ma stava già bestemmiando in italiano: imprecava contro la pietra, contro il mondo, contro se stesso. Lo guardai, cosa che non gli piacque, e imprecò anche contro di me.
Cercando di calmarlo, dissi: – Non ti preoccupare, sei un po’ fuori allenamento, quest’è tutto.
– Taci -. Indicò con la cazzuola. – Quella. Era un altro peso massimo. La presi su.
– Senti papà. Tu metti la malta e io metto le pietre.
– Taci.
Stese la malta e prese la pietra dalle mie braccia, lottando aspramente, sopraffatto da quel peso, e tuttavia riuscì a piazzarla nella giusta posizione.
Dopo due ore che trafficavamo con le pietre piccole, cercava di stare in posizione eretta ma aveva le reni a pezzi e non ce la faceva più. Piegato come uno scimmione, barcollò fino alla riva del torrente e tirò su il boccione. Si distese sulla pancia e si attaccò al vino freddo, la faccia penosamente afflosciata, gli occhi smarriti. La foresta lo guardava, comprendendo la sua crisi. Gli alberi sospirarono. Gli uccelli, allarmati, parlottavano. Il cielo lo teneva d’occhio, in un azzurro compassionevole. Mio padre, il mio povero vecchio! Era stato sconfitto, lo sapeva, ma non voleva ammetterlo.
Ne aveva costruite di cose con quella pietra, e chiese, e scuole, e almeno una biblioteca: ma adesso se la stava vedendo brutta assai per tirar su un affumicatoio di tre metri e mezzo, senza finestre e con una sola porta.
E sia: che la sconfitta trionfi, pensai, e che si renda conto che tutto ciò è al di là delle sue forze e dei suoi anni; che la butti, quella cazzuola, e mandi al diavolo questa montagna e se ne vada a casa. Dio benedica i cervi!
Lasciandomi cadere al suo fianco, presi il boccione. Quel vino! Mi rifece la bocca, la carne, la pelle, il cuore e l’anima, e ringraziai Dio per le colline di Angelo Musso. Sdraiati in silenzio, ascoltavamo gli uccelli e ci passavamo il boccione.
Gli domandai che cosa avesse in mente.
– Dobbiamo schiattare le pietre, così dalle più grandi ne otteniamo di più piccole.

[…]

Andavamo bene. Quand’era stanco, lui chiedeva vino. Non ce la faceva a raddrizzarsi e così, quando beveva, pareva una scimmia. Cominciò a sudare, e sulla schiena e sotto le ascelle gli comparvero delle chiazze di colore rosa. Che diavolo, pensai, è nutriente, è zucchero d’uva, è energia, e bevvi con lui tutte le volte. Stavamo andando bene, proprio bene.
Eravamo stanchi e inebetiti, e a un certo punto mi parve di vedere uno gnomo col cappello rosso nel bosco mentre il sole scivolava sopra gli alberi e i muri dell’affumicatoio germogliavano verso il cielo.
Finimmo di lavorare quando si fece buio. Avremmo potuto continuare al chiaro di luna, ma in quel caso avremmo raggiunto il limite estremo della pazzia. Poteva arrivare Sam Ramponi da Reno e farsi una solenne risata. Gli ospiti del motel si sarebbero chiesti che stava succedendo. Decidemmo che era finita la giornata. Avevamo bevuto due galloni. Ne avevamo pisciati tre o quattro. Ci girava la testa e facevamo paura. Il vecchio Nick se la rideva.

[…]

Ora andavamo veloci. Dovevamo filarcela. Io spaccavo le grosse pietre e il vecchio le incastrava nel muro. Eravamo in mare aperto, su una zattera, e ci davamo da fare quasi stessimo stabilendo un primato. Fatti una bevuta, figlio. Una corsa. Fatti una bevuta, papà. Non c’era né partenza né traguardo. Via, veloci. Lui buttò da una parte il filo a piombo.
Smise di usare la livella. Lavorava d’istinto. Talvolta abbassava il capo per controllare la linea del muro e sbirciava. Il piombo lo manteneva così. Il muro cresceva e il vino calava. Una volta guardai verso il cielo e domandai: – Che ora è? -. Rispose lui: – Non esistono, le ore, – e risi. Dio, se era profondo.
Quando finì il vino, Ramponi ne portò dell’altro da Reno. Giusto in tempo. Proprio nel momento dell’ultima goccia dell’ultimo boccione. Quello buono, di Angelo Musso.

[…]

Le luci erano spente e la casa di mia madre era al buio quando svoltai nel cortile, ma vidi che l’ingresso principale era aperto e sentii il cigolio di una sedia a dondolo sulla veranda, e poi la voce di mia madre.
– E’ morto?
Nella sua voce non c’era ansia, non emozione, soltanto una accettazione passiva di ciò che doveva essere.
– No, mamma. Vengo giusto dall’ospedale.
– Come sta?
– Bene, – dissi, scrutando l’oscurità in cerca di un poco del suo viso. – Il dottor Maselli sta con lui -. Mi sedetti
sull’ultimo gradino della veranda e mi appoggiai alla staccionata.
– Me la sentivo, – disse lei. – L’ho sempre saputo. E’ un fatto di cuore?
– Ha preso il diabete.
Si alzò e baciò un rosario bianco che aveva in mano.
– Suo padre morì di diabete.
– Quanti anni aveva?
– Era giovane. Ne aveva solo ottanta. Quand’è che possiamo andare a trovarlo?
– Forse domani.
– Hai fame? Ho fatto un pezzo di carne.
La seguii in casa. La carne era nel forno aperto. Non aveva un’aria appetitosa, era come se fosse stata preparata per mio padre: la sua cena, e io non potevo mangiarla. Mentre spalmavo burro di arachidi su una fetta di pane, mia madre si fece sulla porta. Aveva un vestito grigio e azzurro con uno scialle nero sul capo.
– Vado in chiesa.
– A quest’ora? Sarà chiusa.
– Non più. Padre Martin tiene le porte aperte tutta la notte.
– Vacci di mattina.
– Ci vado ora, voglio pregare.
– Ti chiamo un taxi.
– No, mi va di camminare.
Se ne andò, e io sentii il burro d’arachidi che mi s’attaccava al palato, poi pensai a lei che stava facendosi sette isolati di notte, attraversava la ferrovia, superava il deposito di legname e arrivava a Pacific Street, alla chiesa di legno del quartiere messicano. Andai con lei.
La raggiunsi, e lei non si accorse che ero là; continuava assorta in altri pensieri, con serena determinazione. Come mi pareva bella in quella notte tiepida, lungo quella strada di case cadenti appena illuminata; innamorata del suo marito tiranno che stava all’ospedale, con quel viso di colomba e i movimenti dolci che mi ricordavano una vecchia fotografia di lei a vent’anni, con un bel cappello ampio al Capitol Park di Sacramento, appoggiata a un albero, sorridente; preziosa

[…]

Mi inginocchiai anch’io al suo fianco, e ascoltai il vecchio edificio che cigolava e ansimava dopo tutto il calore della giornata. C’era un odore di strati e strati d’incenso e di fiori freschi, di matrimoni e di funerali insieme, e poi ombre che guizzavano sulle pareti dietro le ghirlande di luci della vigilia.
La pace ammorbidì il volto di mia madre. Non si era sposata in quella chiesa, ma era lì che i suoi figli erano stati battezzati, ed erano poi stati educati dalle suore di quella parrocchia. Ora era la fede che la nutriva, e dal modo in cui le sue labbra si muovevano si poteva capire che stava assorbendo tutta la magia del posto.

[…]

Mentre aspettavano malinconici coi loro vestiti della domenica, gli amici che s’erano incaricati di portare la bara si facevano ombra sotto un grosso olmo, in quel mesto, bollente pomeriggio. Erano Zarlingo, Cavallaro, Antrilli, Mascarini, Benedetti e Rocco Mangone. Erano belli come vecchie pietre sparpagliate su un terreno in pendio. Il dolore mi prese alla gola come una trota che saltava, e li guardai. Ora che non avevo più il mio, avrei preso uno qualunque di loro perché mi fosse padre. Davvero: qualunque uomo, o magari un cespuglio, un albero, un sasso, purché mi volesse come figlio. Ero anch’io un padre, ma non volevo quel ruolo. Volevo tornare indietro nel tempo, quand’ero piccolo e mio padre girava per casa, forte e rumoroso. Fanculo la paternità. Non ci ero tagliato. Ero nato per fare il figlio.

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1° parte, 2° parte, 3° parte, 4° parte

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Written by filippo

28 December 2013 at 9:31 am

John Fante, La confraternita dell’uva (3° parte)

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Edvard Munch, Melancolia

Edvard Munch, Melancolia

– Ci vai a Donner Pass con tuo padre? – m’interrogò.
– Ma no.
– Insomma, vuoi che il tuo vecchio va da solo fino a lassù, a trascinare pietre, a impastare la malta, a costruire una casa di sassi tutta da solo?
– Se è questo ciò che vuole, si accomodi: io non gli sbarro il passo.
– In altre parole, non te ne frega un cazzo se tuo padre vive o muore.
– Questo lo non l’ho detto, l’ha detto lei.
– E un uomo orgoglioso, – disse Cavallaro, – non lo capisci?
– L’orgoglio precedette la caduta.
D’improvviso il vecchio Zarlingo fece uno scarto e mi assestò un gran ceffone su una guancia, a palmo aperto. Fu un colpo duro, a sorpresa, scioccante. Lui sembrava più sorpreso di me per quello che aveva fatto, e Cavallaro rimase lì interdetto. Io risi. Non potevo far altro. Risi per nascondere la mia rabbia e mi allontanai lungo il vialetto, fino al marciapiede, dove mi voltai, in un impeto d’ira che mi cresceva nelle costole.
– Bifolco! – strillai. – Vecchio bacucco d’un patetico ubriacone!
– Smidollato! – gridò lui, avanzando lungo i gradini verso di me. – E’ meglio che porti rispetto!
Pensai di affrontarlo, pensai perfino di picchiarlo: ma la cosa non aveva senso, non aveva senso specialmente la mia ira, e così me la filai rapidamente. Sbirciando alle mie spalle vidi che stava tirando su una lattina di birra dall’immondizia e che me la tirava dietro. La lattina rotolò innocua oltre i miei piedi, e la cosa mi fece ridere di nuovo. Seguitai a camminare, verso la città. E nella mia mente scattò la decisione: me ne andavo da quella dannata città. Tempo tre, quattro ore, e sarei stato sotto le coperte nel mio letto, lontano quattrocento miglia, ad ascoltare il respiro della risacca, e tutti questi brutti sogni me li sarei scordati. Percorsi tutta Pleasant Street e poi imboccai Lincoln, poi a destra in direzione del capolinea delle corriere.
Nel vicolo, la corriera per Sacramento sbuffava pesantemente raccogliendo un pugno di passeggeri. Comprai un biglietto e mi diressi alla corriera, ma non vi salii. Avevo perduto la facoltà di prendere una decisione. Più indugiavo – coll’autista in attesa che mi osservava di tra la portiera – e più grave mi appariva quella scelta, con la paura che mi s’insinuava dentro, la paura di scoccare un colpo fatale ai miei anziani genitori, la paura di dovermi pentire per il resto dei miei giorni. Dovevo restare. Non per scelta, ma per dovere. Così mi incamminai di nuovo verso casa, cercando in me stesso l’empito di zelo cristiano che mi aveva fatto fare quella buona azione, precostituendomi una ricompensa nei cieli.
Quando raggiunsi casa, la Datsun, e con lei Zarlingo e Cavallaro, non c’erano più. In camera da letto mia madre stava seduta al fianco del vecchio, che svestito giaceva sotto un lenzuolo, nel calore della piccola stanza.
– Dov’eri andato? – disse mia madre. – Ero così preoccupata.
– Di che?
– Tu sei uno scrittore. Questa città, di notte, non è posto per uno come te.
Credetti di sentir singhiozzare mio padre e mi avvicinai a lui. Stava piangendo nel sonno: le lacrime sgorgavano da quegli occhi chiusi. Lei gli asciugava le ciglia umide con l’orlo del lenzuolo.
– Perché piange?
– Sta sognando. Vuole sua madre.
Sua madre. Morta da sessant’anni.
Ammutolii e filai in cucina, in cerca di vino.

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Written by filippo

23 December 2013 at 5:44 pm

John Fante, La confraternita dell’uva (2° parte)

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Edward Hopper - Sunday

Edward Hopper, Sunday

– Papà, penso che non dovresti accettare quel lavoro.
– E chi lo dice?
– Sei troppo vecchio, maledizione. Ti verrà un colpo, un collasso cardiaco. Ti stenderà.
– Mia madre aveva novantaquattro anni. Mio padre ottantuno. Ho soltanto bisogno di un aiutante coi fiocchi, qualcuno che sappia come si fa a impastare la malta e a trasportare le pietre.
– Hai in mente qualcuno?
Fece un sorso di chiaretto. – Seh.
– E’ uno a posto?
– Cazzo no, ma mi tocca di prendere quello che passa il convento.
Capii chi aveva in mente.
– Papà, – sorrisi, – sei fuori di testa.
– Quant’è che ti puoi fermare?
– Un giorno o due.
– Possiamo farcela in tre settimane.
– Impossibile.
– E’ un lavoretto facile. Una casetta di pietra su a monte Casino. Dieci per dieci. Niente finestre. Una porta. Io tiro su i muri, tu fai la malta e porti le pietre. E’ un bel posto. Bella campagna. Foreste. Grandi alberi. Aria di montagna. Ti farà bene. Butti giù un po’ di ciccia.
[…]

Gemetti. – E Garcia, il tuo vecchio manovale?
– Morto.
– E Red Griffin?
– Morto.
– Quel negro, Campbell?
– Morente.
– Deve esserci qualcuno in vita da queste parti oltre a me! Ci deve essere!
– Andati, tutti andati.
– E Zarlingo, o Benedetti, o qualcun altro di quegli sfaccendati con cui giochi a carte?
– Sono piuttosto vecchi. Benedetti ha ottant’anni.
Un sospiro, un sospiro che sembrava venire da secoli lontani, fuoruscì da quelle sue labbra vinose. Parve franare, quasi che le ossa del suo scheletro cedessero sotto il peso della disperazione, e il mento gli si appoggiò sul petto.
– Nessuno vuole lavorare per Nick Molise, – disse. – E’ due settimane che sto cercando, ma non riesco a trovarne uno.
Nemmeno mio figlio -. Ricacciò indietro un singhiozzo.
– Dio buono, papà, non metterti a piangere per me.
– Dieci, venti generazioni di muratori, e io sono l’ultimo, il capolinea, e a nessuno gliene frega niente, nemmeno alla carne della mia carne.
Era venuto il momento della ragionevolezza, della pazienza e delle paroline tenere: questione di ritegno, di bontà, di carità e generosità filiale. Dissi che mi dispiaceva, papà. Dissi che c’erano certe cose che non gli avrei mai chiesto di fare, e così c’erano altre cose che lui non doveva chiedermi di fare. Dissi che non avevo niente contro il trasportare secchi o contro la posa in opera di una pietra. Dissi che quella di muratore era una professione onorevole, la testimonianza migliore della nobiltà e delle aspirazioni del genere umano. Con animo grato, citai l’Acropoli, le piramidi, gli acquedotti romani e le rovine azteche. Poi cominciai ad arrabbiarmi davanti a questo vecchio irascibile e cocciuto, e venne fuori la mia impazienza, la furia dei Molise mi percorse con un fremito di truculenza, di malanimo, di frenesia.
– In tutta franchezza, vecchio mio, – dissi, – io lo odio il mestiere di costruire. Lo odio da quando ero piccolo e tu tornavi a casa con la malta schizzata sulle scarpe e sul viso. Penso che gli imbianchini e i muratori siano degli ubriaconi, e che gli idraulici siano dei ladri. Penso che i falegnami siano dei truffatori e che gli elettricisti siano rapinatori da strada. Non mi piacciono i lastricati, il marmo, il granito, i mattoni, le piastrelle, la sabbia, il cemento. Se non vedrò mai più un caminetto di pietra o un muro di pietra o dei gradini di pietra o anche solo delle pietre in un campo, bè, non me ne importa un fico. E se proprio vuoi sapere la pura verità, non me ne frega un cazzo nemmeno dei muratori -. Ripresi fiato. – Inoltre, un’altra cosa che non mi piace sono le montagne e le foreste e i gufi e l’aria di montagna e i coyote e gli orsi. Non ho mai visto un affumicatoio in vita mia e, se Dio vuole, non ne vedrò mai uno né tantomeno lo costruirò.
Più gridavo, più battevo i pugni sul tavolo, e più lui beveva; e più beveva, più le lacrime gli sgorgavano dagli occhi.
Cacciò di tasca un fazzoletto a pallini, si soffiò il naso e ingollò un altro poco di vino. Faceva pietà: distrutto, imbarazzante, rivoltante, spudorato, stupido, rozzo, disgustoso e sbronzo, il peggior padre che un uomo potesse avere, così abominevole che sputai la birra nella sputacchiera e mi alzai per andarmene.

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1° parte, 2° parte, 3° parte, 4° parte

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Written by filippo

17 December 2013 at 4:48 pm

John Fante, La confraternita dell’uva

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Certe sere, dopo cena, mio padre incastrava uno di noi ragazzi seduti sulla veranda e, uscendo con la sua andatura ciondolante, fermandosi ad accendere un lungo toscanello nero, faceva schioccare le dita e diceva: – Bene, ragazzo, muoviti. Si va.
– Dove?
– Seguimi.
Per la strada procedeva svelto mentre io gli arrancavo dietro cercando di tenere il passo. Era il Grand Tour, il giro dell’opera omnia di Nick Molise. Toccava a tutti fuorché mamma e mia sorella. Può essere che non la ritenesse una cosa da donne.
In quel tempo San Elmo era una cittadina di dodicimila anime tagliata a metà dalla ferrovia: il centro degli affari e gli aristocratici da una parte, le botteghe di materiale ferroviario, il deposito delle ferrovie e gli operai dall’altra. La prima fermata lungo l’itinerario di mio padre era dall’altra parte della città, nel quartiere dei ricchi, là dove si trovava la biblioteca pubblica, una struttura in mattoni bianchi, in puro stile New England, con quattro colonne di pietra a sormontare una cascata di gradini d’arenaria rossa.
Si fermava dall’altra parte della strada, con le mani sui fianchi, e, guardando l’edificio, la faccia gli si distendeva in un’espressione ammirata.
– Eccola là, ragazzo. Non è carina? Sai chi l’ha costruita?
– Sei stato tu, papà.
– Niente male, davvero niente male.
– E’ una bellezza, papà.
– Durerà mille anni.
– Perlomeno.
– Guarda quella pietra, quei gradini. Vengono giù come acqua.
– Stupendi.
– Una cosa grande.
Mi metteva una mano sulla spalla. – Andiamo, ragazzo. C’è qualcos’altro che devo mostrarti.
Eccoci quindi su Maywood: dopo due isolati c’era la chiesa metodista col suo campanile di pietra e in cima la celletta a vista e le pareti di pietra ricoperte d’edera. Cinque minuti di silenzio, di ammirazione rituale: rapidi sguardi verso il campanile, in quell’aria di magia impregnata della gioia di mio padre, i cui occhi danzavano sui dettagli del proprio manufatto, il cui viso era soffuso di contentezza.
– L’ho fatta io, – affermava. – Sissignore: l’ho fatta io.
– Certo che sì.
Via di nuovo, di corsa, appresso a lui. Il municipio. La Banca della California. La sede dell’azienda dell’acqua e dell’energia, in stile spagnolesco, col colonnato di cotto e il tetto di tegole rosse. Le pompe funebri Haley. Il Criterion Theatre. La caserma dei vigili del fuoco, tutta linda coi suoi mattoni rossi e una distesa di cemento liscio. E poi via alla San Elmo High School, con qualche altra pausa rispettosa in corrispondenza di siti d’un certo interesse: passaggi pedonali in cemento spazzati dal vento, fontanelle.
– Stop, ragazzo -. Mi bloccava con una mano. – Sotto i tuoi piedi. Che cosa ti sembra, quello?
– Un marciapiede.
– Il marciapiede di chi?
– Il tuo.
– Errore. E’ di tutti. Tuo padre l’ha costruito per tutti quanti, perché non si bagnassero i piedi.
San Elmo High. Mattoni rossi. Immense scalinate di pietra, e papà, le mani dietro la schiena, che socchiudeva gli occhi al fumo del suo sigaro mentre guardava ciò che noi ragazzi avevamo finito per chiamare «la meraviglia invisibile».
– Non noti niente?
Scuotevo il capo. Era una dannatissima scuola, che altro?
– Guarda bene. Non si vede, non lo vedrai mai, ma io te lo mostrerò.
I miei occhi andavano a posarsi sull’epigrafe in mezzo alla facciata dell’edificio. SAN ELMO HIGH SCHOOL. 1936.
– Non “quella”! – protestava, seccato. – Guarda il palazzo! Che cos’ha di speciale?
– L’hai costruito tu.
– Che altro? Cos’è quello che non vedi?
– Come posso saperlo se non lo vedo?
– Puoi, se usi la testa.
Avanzavo allora verso il muro della scuola e lo toccavo qua e là, esaminandolo di sopra e di sotto, per largo e per lungo, stufo marcio di quel viaggio nel suo ego in cui ero costretto a recitare quella stupida parte.
– Non vedo niente.
– Quello che vedi è un edificio che è passato indenne attraverso quattro terremoti. Ora, guarda da vicino e dimmi ciò che non riesci a vedere.
– I morti.
Scuoteva il capo, seccatissimo. – Razza d’asino! Io dico le “crepe”! Le crepe del terremoto. Trovami una sola crepa in quel muro. Avanti.
– Non posso, dal momento che non ce n’è.
– Orbene. Cos’ha di evidente quell’edificio proprio perché non si può vedere?
– Le crepe.
– E perché?
– Perché l’hai costruito tu.
Si frugava in tasca. – Eccoti un quartino. Non spenderlo tutto in una volta.
Io lo pigliavo e scappavo via, finalmente libero.
Altre volte mi toccava il giro al Valhalla Cemetery, subito fuori città. Poteva accadere inaspettatamente di domenica pomeriggio, ed era allora un duro cimento, una vera agonia per un tredicenne che doveva scendere in campo come lanciatore contro i Nevada City Tigers alle due in punto, ed era già l’una e mezzo, ma lui era del tutto indifferente alla tua casacca, al guantone e all’imbottitura, e ti toccava andargli dietro, ben sapendo che il campo di gioco si trovava a dieci isolati di distanza dall’altra parte della città.
Il Valhalla Cemetery brulicava di angeli marmorei fatti da mio padre, con le ali spiegate, con le braccia e le lunghe dita distese, con le loro facce arcigne da sparvieri, spaventevoli apparizioni che parevano avvoltoi nell’atto di proteggere una carogna. Dovunque fossero appollaiati, si aveva l’impressione che già avessero profanato le tombe.
In fondo al viale fiancheggiato dai cipressi c’era l’enorme busto del sindaco Hal Shriner, austero, dalla mascella d’acciaio, con l’espressione minacciosa e crudele di un politico truffaldino che ti fissava da un piedistallo al di sopra della fossa: gli occhi vuoti, qualche caccola d’uccello sui suoi capelli di pietra. Mio padre si scappellava e guardava, ammirato, come un viandante incantato dal “David” di Michelangelo; io intanto davo colpi al mio guantone da baseball, impaziente.
– Fanno nove anni da quando è morto, – rimuginava mio padre. – Ormai se n’è andato, finito -. I suoi occhi incrociavano quelli del sindaco. – Salve, sindaco, vecchio figlio di puttana. Come ti trattano laggiù?
Io facevo vagare il mio sguardo su quel mare di lastre tombali e gemevo. Mi pareva che avessimo ancora interi acri da attraversare. Il mondo intero s’era tramutato in un cimitero. Bel modo di riscaldarsi prima di una partita di baseball! Lui lo sapeva perché fremevo e ribollivo, scalpitando sulla ghiaia con le mie scarpe chiodate: “sapeva”, ma non gliene importava un fico mentre solennemente si dirigeva, lungo il viale, alla tomba della vecchia Loretta Stevens, la bibliotecaria, modellata a forma di libro aperto, con le date della defunta cesellate su una pagina di pietra.

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Written by filippo

11 December 2013 at 11:45 pm

L’importanza di Mario Monti

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Mario Monti

L’importanza di Monti è sottovalutata; andrebbe studiato a scuola perchè è l’esempio di come una persona seria ha cercato di lavorare bene ed è stato inculato, ma andiamo per gradi.

1) Riforma pensioni, IMU e altre cose necessarie ma impopolari, che toccano i soliti noti, standing ovation in Parlamento.

2) Appena si parla di lotta all’evasione, lotta alla corruzione, liberalizzazioni, ecc. il Parlamento gliele smonta (alternativa, la mancata fiducia e caduta del Governo).

3) Campagna elettorale fin troppo brillante per battute e frecciatine, il popolo non le coglie, così come non ascolta la prima parte fin troppo realistica e severa sulle tasse italiane.

4) Monti capisce che gli italiani sono irrimediabilmente stupidi e prova a sparare qualche promessa inattuabile o controproducente, per attirare elettori.

5) Monti prende uno sputo di voti.

6) Oggi Monti è più odiato di Bersani, Berlusconi, Casini & Co.

Written by filippo

15 March 2013 at 10:56 am