Filippo Venturi Photography | Blog

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John Fante, La confraternita dell’uva

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Certe sere, dopo cena, mio padre incastrava uno di noi ragazzi seduti sulla veranda e, uscendo con la sua andatura ciondolante, fermandosi ad accendere un lungo toscanello nero, faceva schioccare le dita e diceva: – Bene, ragazzo, muoviti. Si va.
– Dove?
– Seguimi.
Per la strada procedeva svelto mentre io gli arrancavo dietro cercando di tenere il passo. Era il Grand Tour, il giro dell’opera omnia di Nick Molise. Toccava a tutti fuorché mamma e mia sorella. Può essere che non la ritenesse una cosa da donne.
In quel tempo San Elmo era una cittadina di dodicimila anime tagliata a metà dalla ferrovia: il centro degli affari e gli aristocratici da una parte, le botteghe di materiale ferroviario, il deposito delle ferrovie e gli operai dall’altra. La prima fermata lungo l’itinerario di mio padre era dall’altra parte della città, nel quartiere dei ricchi, là dove si trovava la biblioteca pubblica, una struttura in mattoni bianchi, in puro stile New England, con quattro colonne di pietra a sormontare una cascata di gradini d’arenaria rossa.
Si fermava dall’altra parte della strada, con le mani sui fianchi, e, guardando l’edificio, la faccia gli si distendeva in un’espressione ammirata.
– Eccola là, ragazzo. Non è carina? Sai chi l’ha costruita?
– Sei stato tu, papà.
– Niente male, davvero niente male.
– E’ una bellezza, papà.
– Durerà mille anni.
– Perlomeno.
– Guarda quella pietra, quei gradini. Vengono giù come acqua.
– Stupendi.
– Una cosa grande.
Mi metteva una mano sulla spalla. – Andiamo, ragazzo. C’è qualcos’altro che devo mostrarti.
Eccoci quindi su Maywood: dopo due isolati c’era la chiesa metodista col suo campanile di pietra e in cima la celletta a vista e le pareti di pietra ricoperte d’edera. Cinque minuti di silenzio, di ammirazione rituale: rapidi sguardi verso il campanile, in quell’aria di magia impregnata della gioia di mio padre, i cui occhi danzavano sui dettagli del proprio manufatto, il cui viso era soffuso di contentezza.
– L’ho fatta io, – affermava. – Sissignore: l’ho fatta io.
– Certo che sì.
Via di nuovo, di corsa, appresso a lui. Il municipio. La Banca della California. La sede dell’azienda dell’acqua e dell’energia, in stile spagnolesco, col colonnato di cotto e il tetto di tegole rosse. Le pompe funebri Haley. Il Criterion Theatre. La caserma dei vigili del fuoco, tutta linda coi suoi mattoni rossi e una distesa di cemento liscio. E poi via alla San Elmo High School, con qualche altra pausa rispettosa in corrispondenza di siti d’un certo interesse: passaggi pedonali in cemento spazzati dal vento, fontanelle.
– Stop, ragazzo -. Mi bloccava con una mano. – Sotto i tuoi piedi. Che cosa ti sembra, quello?
– Un marciapiede.
– Il marciapiede di chi?
– Il tuo.
– Errore. E’ di tutti. Tuo padre l’ha costruito per tutti quanti, perché non si bagnassero i piedi.
San Elmo High. Mattoni rossi. Immense scalinate di pietra, e papà, le mani dietro la schiena, che socchiudeva gli occhi al fumo del suo sigaro mentre guardava ciò che noi ragazzi avevamo finito per chiamare «la meraviglia invisibile».
– Non noti niente?
Scuotevo il capo. Era una dannatissima scuola, che altro?
– Guarda bene. Non si vede, non lo vedrai mai, ma io te lo mostrerò.
I miei occhi andavano a posarsi sull’epigrafe in mezzo alla facciata dell’edificio. SAN ELMO HIGH SCHOOL. 1936.
– Non “quella”! – protestava, seccato. – Guarda il palazzo! Che cos’ha di speciale?
– L’hai costruito tu.
– Che altro? Cos’è quello che non vedi?
– Come posso saperlo se non lo vedo?
– Puoi, se usi la testa.
Avanzavo allora verso il muro della scuola e lo toccavo qua e là, esaminandolo di sopra e di sotto, per largo e per lungo, stufo marcio di quel viaggio nel suo ego in cui ero costretto a recitare quella stupida parte.
– Non vedo niente.
– Quello che vedi è un edificio che è passato indenne attraverso quattro terremoti. Ora, guarda da vicino e dimmi ciò che non riesci a vedere.
– I morti.
Scuoteva il capo, seccatissimo. – Razza d’asino! Io dico le “crepe”! Le crepe del terremoto. Trovami una sola crepa in quel muro. Avanti.
– Non posso, dal momento che non ce n’è.
– Orbene. Cos’ha di evidente quell’edificio proprio perché non si può vedere?
– Le crepe.
– E perché?
– Perché l’hai costruito tu.
Si frugava in tasca. – Eccoti un quartino. Non spenderlo tutto in una volta.
Io lo pigliavo e scappavo via, finalmente libero.
Altre volte mi toccava il giro al Valhalla Cemetery, subito fuori città. Poteva accadere inaspettatamente di domenica pomeriggio, ed era allora un duro cimento, una vera agonia per un tredicenne che doveva scendere in campo come lanciatore contro i Nevada City Tigers alle due in punto, ed era già l’una e mezzo, ma lui era del tutto indifferente alla tua casacca, al guantone e all’imbottitura, e ti toccava andargli dietro, ben sapendo che il campo di gioco si trovava a dieci isolati di distanza dall’altra parte della città.
Il Valhalla Cemetery brulicava di angeli marmorei fatti da mio padre, con le ali spiegate, con le braccia e le lunghe dita distese, con le loro facce arcigne da sparvieri, spaventevoli apparizioni che parevano avvoltoi nell’atto di proteggere una carogna. Dovunque fossero appollaiati, si aveva l’impressione che già avessero profanato le tombe.
In fondo al viale fiancheggiato dai cipressi c’era l’enorme busto del sindaco Hal Shriner, austero, dalla mascella d’acciaio, con l’espressione minacciosa e crudele di un politico truffaldino che ti fissava da un piedistallo al di sopra della fossa: gli occhi vuoti, qualche caccola d’uccello sui suoi capelli di pietra. Mio padre si scappellava e guardava, ammirato, come un viandante incantato dal “David” di Michelangelo; io intanto davo colpi al mio guantone da baseball, impaziente.
– Fanno nove anni da quando è morto, – rimuginava mio padre. – Ormai se n’è andato, finito -. I suoi occhi incrociavano quelli del sindaco. – Salve, sindaco, vecchio figlio di puttana. Come ti trattano laggiù?
Io facevo vagare il mio sguardo su quel mare di lastre tombali e gemevo. Mi pareva che avessimo ancora interi acri da attraversare. Il mondo intero s’era tramutato in un cimitero. Bel modo di riscaldarsi prima di una partita di baseball! Lui lo sapeva perché fremevo e ribollivo, scalpitando sulla ghiaia con le mie scarpe chiodate: “sapeva”, ma non gliene importava un fico mentre solennemente si dirigeva, lungo il viale, alla tomba della vecchia Loretta Stevens, la bibliotecaria, modellata a forma di libro aperto, con le date della defunta cesellate su una pagina di pietra.

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1° parte, 2° parte, 3° parte, 4° parte

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Written by filippo

11 December 2013 at 11:45 pm

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