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John Fante, La confraternita dell’uva (3° parte)

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Edvard Munch, Melancolia

Edvard Munch, Melancolia

– Ci vai a Donner Pass con tuo padre? – m’interrogò.
– Ma no.
– Insomma, vuoi che il tuo vecchio va da solo fino a lassù, a trascinare pietre, a impastare la malta, a costruire una casa di sassi tutta da solo?
– Se è questo ciò che vuole, si accomodi: io non gli sbarro il passo.
– In altre parole, non te ne frega un cazzo se tuo padre vive o muore.
– Questo lo non l’ho detto, l’ha detto lei.
– E un uomo orgoglioso, – disse Cavallaro, – non lo capisci?
– L’orgoglio precedette la caduta.
D’improvviso il vecchio Zarlingo fece uno scarto e mi assestò un gran ceffone su una guancia, a palmo aperto. Fu un colpo duro, a sorpresa, scioccante. Lui sembrava più sorpreso di me per quello che aveva fatto, e Cavallaro rimase lì interdetto. Io risi. Non potevo far altro. Risi per nascondere la mia rabbia e mi allontanai lungo il vialetto, fino al marciapiede, dove mi voltai, in un impeto d’ira che mi cresceva nelle costole.
– Bifolco! – strillai. – Vecchio bacucco d’un patetico ubriacone!
– Smidollato! – gridò lui, avanzando lungo i gradini verso di me. – E’ meglio che porti rispetto!
Pensai di affrontarlo, pensai perfino di picchiarlo: ma la cosa non aveva senso, non aveva senso specialmente la mia ira, e così me la filai rapidamente. Sbirciando alle mie spalle vidi che stava tirando su una lattina di birra dall’immondizia e che me la tirava dietro. La lattina rotolò innocua oltre i miei piedi, e la cosa mi fece ridere di nuovo. Seguitai a camminare, verso la città. E nella mia mente scattò la decisione: me ne andavo da quella dannata città. Tempo tre, quattro ore, e sarei stato sotto le coperte nel mio letto, lontano quattrocento miglia, ad ascoltare il respiro della risacca, e tutti questi brutti sogni me li sarei scordati. Percorsi tutta Pleasant Street e poi imboccai Lincoln, poi a destra in direzione del capolinea delle corriere.
Nel vicolo, la corriera per Sacramento sbuffava pesantemente raccogliendo un pugno di passeggeri. Comprai un biglietto e mi diressi alla corriera, ma non vi salii. Avevo perduto la facoltà di prendere una decisione. Più indugiavo – coll’autista in attesa che mi osservava di tra la portiera – e più grave mi appariva quella scelta, con la paura che mi s’insinuava dentro, la paura di scoccare un colpo fatale ai miei anziani genitori, la paura di dovermi pentire per il resto dei miei giorni. Dovevo restare. Non per scelta, ma per dovere. Così mi incamminai di nuovo verso casa, cercando in me stesso l’empito di zelo cristiano che mi aveva fatto fare quella buona azione, precostituendomi una ricompensa nei cieli.
Quando raggiunsi casa, la Datsun, e con lei Zarlingo e Cavallaro, non c’erano più. In camera da letto mia madre stava seduta al fianco del vecchio, che svestito giaceva sotto un lenzuolo, nel calore della piccola stanza.
– Dov’eri andato? – disse mia madre. – Ero così preoccupata.
– Di che?
– Tu sei uno scrittore. Questa città, di notte, non è posto per uno come te.
Credetti di sentir singhiozzare mio padre e mi avvicinai a lui. Stava piangendo nel sonno: le lacrime sgorgavano da quegli occhi chiusi. Lei gli asciugava le ciglia umide con l’orlo del lenzuolo.
– Perché piange?
– Sta sognando. Vuole sua madre.
Sua madre. Morta da sessant’anni.
Ammutolii e filai in cucina, in cerca di vino.

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1° parte, 2° parte, 3° parte, 4° parte

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Written by filippo

23 December 2013 at 5:44 pm

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