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Andromaca, con Manuela Mandracchia

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Plautus Festival 2012, presso l’Arena Plautina di Sarsina
PRAGMA SRL – TEATRO DEI DUE MARI
presentano
Manuela Mandracchia in Andromaca
da Jean Racine, adattamento di Filippo Amoroso
con Graziano Piazza, Fabio Cocifoglia, Silvia Siravo, Antonio Silvia, Paola Surace, Antonella Nieri
e con la partecipazione di Renato Campese
Scene: Michele Ciacciofera
Costumi: Francesca Delmirani
Regia: Massimiliano Farau
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Trama
I personaggi sono: Pirro, figlio di Achille; Ermione, promessa sposa di Pirro; Andromaca, moglie di Ettore; Astianatte, figlio di Andromaca e Ettore (che non compare in scena); Oreste, ambasciatore inviato dai greci. Nel palazzo di Pirro a Butrinto nell’Epiro, Ermione attende le nozze promesse per le quali è venuta da Sparta. Ma Pirro indugia, trascurandola per amore di Andromaca, sua schiava, alla quale offre la sua mano, la corona e la salvezza per il figlio Astianatte.
I greci inviano a lui Oreste, per chiedere la morte del fanciullo. Oreste è innamorato di Ermione e spera che Pirro rifiuti e lasci la promessa sposa, che potrebbe così rispondere al suo amore. La minaccia dei greci diviene un’arma in mano a Pirro, nel tentativo di piegare Andromaca che, anche se straziata, resiste alle avances di Pirro.
Ermione rivela ad Oreste il suo amore per Pirro e gli chiede di porre a Pirro la scelta tra lei e Astianatte.
A dispetto dell’amore per Andromaca, Pirro decide di consegnare Astianatte e sposare Ermione. Oreste è disperato, mentre Ermione è raggiante di felicità, alla quale si associa il disprezzo per la principessa troiana, che ora viene a supplicarla in favore del figlio.
Un successivo incontro tra Andromaca e Pirro sembra capovolgere la situazione: Pirro si offre di sposarla e di porre così in salvo la vita del figlio.
Andromaca accetta ma il suo disegno è di sposarlo solo al fine di assicurare la sua protezione al figlio, dopo di che darsi la morte.
Ermione, davanti a questo affronto, chiama Oreste e, invocando il suo amore, gli chiede di uccidere Pirro.
Combattuta tra orgoglio e amore, attende l’esito; quando Oreste gli viene a riferire che Pirro è stato ucciso, scoppia il suo amore per lui ed il dolore per la sua tragica fine.
Respinge quindi l’uomo che troppo l’ha ubbidita e corre a suicidarsi sul cadavere del promesso sposo.
Oreste, in preda alla follia, sviene e l’amico Pilade ne approfitta per portarlo via.
Andromaca diventa regina, poiché il fato così ha deciso e quindi proseguirà la sua stirpe.
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L’opera
Andromaca è il primo capolavoro di Racine; il primo esempio del suo teatro di nuda passione e realismo psicologico. La parte iniziale presenta un carattere complesso da cui deriva l’alterno moto dei personaggi, che si dispiega nello svolgimento della tragedia in un gioco di due coppie che si respingono e si ricercano.
Ermione, veemente e appassionata, è la prima delle amanti frenetiche raciniane; Andromaca, con il suo candore virgiliano, riveste l’opera di luce poetica.
Racine purifica Andromaca, togliendole la nuova maternità che era nell’Andromaca di Euripide, ed a cui fugacemente accenna anche Virgilio nell’Eneide, da cui l’autore prende la sua prima ispirazione.
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Lo spettacolo
Nell’asciutto adattamento di Filippo Amoroso, il regista Massimiliano Farau sottolinea all’interno della vicenda l’aspetto moderno e, allo stesso tempo, antico del rapporto estremamente complesso fra vittima e carnefice, vincitori e vinti. La potente metafora del potere che si innesca fra la difesa della stirpe (Andromaca) e il bisogno di sottometterla (Pirro) è il tema centrale della Tragedia.
Viviamo in un mondo esacerbato, conflittuale, continuamente sconvolto da guerre, attentati, stragi di civili innocenti. In questo svolgersi di avvenimenti luttuosi, le donne, come generatrici della razza umana, sono vittime designate e soggette ad ogni genere di violenze, di stupri di massa, di sacrifici e di crimini odiosi.
La scelta di mettere in scena questo testo ci sembra attuale, significativa di come nel corso di tanti secoli (la guerra di Troia insegna) il genere umano non sia riuscito a modificare le dinamiche che sconvolgono equilibri sociali e posizioni di potere. In questo senso, Andromaca rappresenta in modo evidente l’archetipo dell’evoluzione – in negativo – della storia dei popoli e dei loro rapporti di forza.
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Note di Regia
Dopo un logorante assedio durato dieci anni, la guerra di Troia si conclude con un vero e proprio genocidio, nel giro di una notte di violenze inaudite. I vincitori si spartiscono, come trofei, le donne dei vinti.
Al figlio di Achille, Pirro, autore dei più efferati assassinii di quella notte di ebbrezza omicida, tocca in sorte Andromaca, la principessa che suo padre ha reso vedova del più grande fra gli eroi troiani, Ettore.
In Epiro, nella reggia di Pirro, dove Andromaca è prigioniera con il figlioletto Astianatte, c’è anche Ermione, figlia di Elena e Menelao, che i Greci hanno destinato in moglie a Pirro, esigendo in cambio Astianatte, che vogliono uccidere per estinguere la stirpe di Priamo e annientare qualsiasi possibilità di futura vendetta. La situazione è ferma: Pirro, preso ora da amore per Andromaca, e disgustato dalle passate violenze, temporeggia.
I greci inviano allora Oreste, figlio di Agamennone, a sollecitare una decisione. Ma Oreste ama Ermione, di cui è stato a sua volta promesso sposo.
Andromaca di Racine inizia qui e, sotto l’apparenza di un dramma di amori non corrisposti (Oreste ama Ermione che ama Pirro che ama Andromaca che ama il defunto Ettore), è un’analisi lucidissima del trauma post-bellico che la generazione più giovane vive all’indomani di un conflitto devastante.
Pirro, Oreste e Ermione sono figli di eroi della guerra troiana, la guerra di tutte le guerre, e su di loro pesa un’eredità impossibile da sostenere.
Lontani ormai dai luoghi della violenza, nelle asettiche stanze della politica e della diplomazia, sono chiamati, in modo caotico, da adulti incompiuti quali sono, a chiudere conti di sangue lasciati aperti dalla generazione precedente: le loro identità sono disintegrate dal confronto con un passato e con genitori letteralmente immani; ne risulta una incapacità assoluta di progettare il futuro se non con una risposta irriflessa alle proprie pulsioni più narcisistiche.
Che cos’è il “furor” erotico di Oreste e Ermione se non un disperato e devastante tentativo di realizzarsi, un istinto di morte malcelato sotto un apparente slancio vitale?
L’intreccio di amore e morte è ancora più inestricabile nel rapporto fra Pirro e Andromaca, che hanno vissuto in prima persona l’orrore della guerra, sperimentando, da carnefice e da vittima, violenze inimmaginabili: «la vittoria e la notte, più crudeli di noi, ci eccitavano al massacro e confondevano i nostri colpi», racconta Pirro. Come si può ricondurre questo abisso di violenza e sadismo che si è scoperto dentro di sé, entro la razionalità diurna delle proprie responsabilità di monarca?
L’ossessione di Pirro per Andromaca sembra fatta anche di questo, di un impasto di rimorsi e di anelito al riscatto, nel quadro di una coscienza devastata da quello che il manuale della psichiatria americana di Diagnostica e Statistica dei Disturbi mentali (DSM IV), diagnosticherebbe come “post-traumatic stress disorder”.
In questo bailamme di libìdo a briglia sciolta (Oreste, Ermione) e di vertiginose oscillazioni fra una ritrovata capacità di compassione e accessi incontrollati di violenza (Pirro), Andromaca si staglia con la sua dignità di vedova e di madre. Ma neppure lei è innocente: Racine ci fa sapere che sotto le mura di Troia, per salvare Astianatte, ha, con un sotterfugio, inviato a morire un altro bambino. Anche in lei sentiamo la presenza di un istinto primordiale e imperativo, di un diktat biologico, quello della madre che protegge il cucciolo: diktat che la colloca in una dimensione in qualche modo pre-morale, mentre la sua stessa relazione con Pirro si colora di venature da “sindrome di Stoccolma”.
Nell’eleganza raggelata della sua scrittura, Racine organizza un materiale incandescente e ci racconta il fondo di violenza ancestrale che abita sotto l’impiallacciatura del nostro vivere civile, ed è pronto a ridestarsi ogni volta che la storia ci porta a toccare i limiti dell’umano.
Il Teatro di Tindari e i Teatri Greci della nostra penisola sono la collocazione ideale per rinnovare l’operazione di Racine: quella di far vedere in trasparenza, dietro le pareti (che non possiamo non immaginare diafane) delle stanze del “Palazzo”, un passato mitico, cogente e ineludibile.
Immaginiamo un allestimento leggero fatto solo di pochi oggetti trasparenti in cui la modernità asciutta e tagliente delle parole di Racine si liberi sullo sfondo dei ruderi della skenè e della suggestione potente del mare.
Massimiliano Farau
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Cassandra

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Plautus Festival 2012, presso l’Arena Plautina di Sarsina
MDA Produzioni Danza – Mistras, in coproduzione con Teatri di Pietra e in collaborazione con Fonderia 900 presentano
Elisabetta Pozzi in
CASSANDRA
Opera per danza teatro e musica, da Eschilo, Euripide, Seneca, Jean Baudrillard e il contributo di Massimo Fini
Drammaturgia: Elisabetta Pozzi e Aurelio Gatti
con Hal Yamanouchi, Carlotta Bruni, Rosa Merlino
Coreografia: Aurelio Gatti
Musiche originali: Daniele D’Angelo
Costumi: Livia Fulvio
Luci: Stefano Stacchini
Realizzazione scene: Capannone Molière
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Un nuovo lavoro dedicato a Cassandra: una tra le più fragili eroine classiche.
Elisabetta Pozzi è la protagonista di una drammaturgia che esprime, attraverso il mito di Cassandra, la consapevolezza “solitaria” del percepire l’imminente, quasi un’empatia universale, in cui la tragedia non è quello che avviene, ma l’“importanza” a comunicarlo.
Una messa in scena che prosegue l’esperienza di “Sorelle di Sangue – Crisotemi” e che si caratterizza per l’uso di diversi codici espressivi – la musica, la danza e la parola – per restituire una lirica del tragico, scarna ed essenziale, la cui contemporaneità “passa” attraverso l’interprete che si fa significato del presente.
Lo spettacolo è costruito su una drammaturgia da me curata insieme ad Elisabetta Pozzi (che cura anche la parte coreografica), su una scrittura ispirata ad Eschilo, Euripide, ma anche Christa Wolf, Wislawa Szymborska, Pasolini, Baudrillard e con contributi originali di Massimo Fini.
Le musiche e gli ambienti sonori di Daniele D’Angelo.
Aurelio Gatti
La figura di Cassandra mi ha sempre affascinato e nello stesso tempo turbato. Profetessa non creduta… mi suggerisce la visione di un personaggio estremamente vivo che può arrivare ai giorni nostri per raccontarci qualcosa che ci riguarda molto da vicino.
La consapevolezza (ora come allora) degli errori commessi nel passato dai Padri, la porta ad essere talmente cosciente e lucida sul futuro, da avvertire l’inadeguatezza del vivere il presente all’ombra della distruzione.
Questa nuova Cassandra è una donna contemporanea che attraverso un viatico “straordinario” ripercorre la veggenza inevitabile della conoscenza attraverso il mito e, nel racconto di questi, si fa ella stessa Cassandra, ritrovando le sue parole che pian piano diventano parole di oggi, il racconto di un mondo in cui la proliferazione di una tecnologia spesso distruttiva annulla il futuro, elimina ogni visione e prospettiva.
Elisabetta Pozzi
L’incontro con Elisabetta Pozzi è stato del tutto casuale.
Nel 2009 l’avevo vista al teatro greco di Siracusa in una straordinaria interpretazione di Medea.
Ne avevo scritto, incidentalmente, in un articolo per il Fatto Quotidiano che trattava di tutt’altro.
Dopo qualche giorno squilla il telefono di casa mia a Milano: “Sono Elisabetta Pozzi. Ma sono proprio io quell’Elisabetta di cui lei parla sul Fatto?”. “Certo, signora” risposi. “Io la stimo moltissimo”. Mi colpì il suo understatement, che non è falsa modestia.
Del resto Betta, nella vita quotidiana, non “se la da”, non fa la diva, non si attacca alle tende alla Eleonora Duse, è una ragazza (mi viene da chiamarla così) normalissima anche se emotivamente molto intensa. Decidemmo di incontrarci, insieme al marito, il musicista Daniele D’Angelo. Se io ero affascinato dall’attrice, lei, che ha una curiosità onnivora, era stata presa dalle tesi antimodernistiche di alcuni miei libri dove sostengo che, dopo la Rivoluzione Industriale, per sfuggire ad un mondo fatto di fatiche durissime, ne abbiamo creato, col pericoloso ottimismo di Candide, un altro peggiore, esistenzialmente invivibile, stressante, angoscioso, depressivo e inoltre “profetizzo” che un sistema basato sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, è destinato fatalmente ad implodere su se stesso nel momento in cui non potrà più crescere.
Nacque quindi, in lei, l’idea di “Cassandra”, una profetessa del mito che si fa gradualmente nel corso della piece, una veggente di oggi.
Dopo le prove che abbiamo fatto alle “Fonderie ‘900 di Roma”, con un caldo infernale, sono andato a vedere lo spettacolo a Velleia, un sito archeologico romano sopra le colline di Piacenza. Poiché nella seconda parte la Pozzi utilizza molti brani dei miei testi, ripresi quasi letteralmente, salvo qualche variazione per esigenze di spettacolo, è stata per me un’emozione violentissima sentire le mie parole assumere, nell’espressività di una grande attrice, una potenza che, sulla fredda carta, non avevano.
E questa è la grande essenza del teatro.
Si dice che il teatro è in crisi. Ed è vero.
Non per nulla ci si occupa del “Teatro Valle” da mesi. Ma, benché io sia conosciuto come il cantore del pessimismo universale, in questo caso sono fiducioso. Per due ragioni.
La prima è che la gente si è stancata degli spettacoli serali, riproducibili all’infinito, come sono quelli della televisione e anche del cinema, dove il ruolo dello spettatore è puramente passivo. Non è uno slogan dire che il teatro è invece interattivo.
Il pubblico della seconda al “Puccini” di Firenze non è lo stesso della prima, quello dello “Storchi” di Modena è diverso da quello della pur vicinissima Bologna. E la performance degli attori dipende molto dall’incontro con la sensibilità dello spettatore. Insomma “l’evento” – per usare questa inflazionatissima e abusata parola – è sempre diverso.
La seconda ragione è che il teatro è, insieme alla musica, alla poesia ed alla pittura, la più antica forma di espressione e di comunicazione umana, e di tutte la più complessa. E, al limite, lo si può fare con elementi essenziali: un corpo e uno spazio. Passerà il cinema, passerà la Tv, passerà anche internet insieme alla tecnologia, ma il teatro lo si potrà fare sempre. Finchè esisterà l’uomo.
Massimo Fini
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