Sta scherzando, Mr. Feynman!
Non so che cosa non va nella gente: non imparano usando l’intelligenza, ma solo meccanicamente o giù di li.
Il loro sapere è così fragile.

Richard Phillips Feynman – New York, 11 maggio 1918 – Los Angeles, 15 febbraio 1988 – è stato un fisico e matematico statunitense.
Al padre Melville, un venditore di uniformi, va ascritto il merito di aver saputo stimolare la curiosità del giovane Feynman, proponendogli fin dalla più tenera età letture e problemi di carattere scientifico.
La vivace intelligenza del giovane Feynman trovò nei volumi dell’Enciclopedia Britannica un fertile terreno di coltura, che venne precocemente ampliato ricorrendo a testi specifici di matematica. Feynman si dedicò autonomamente al calcolo differenziale molto prima dei suoi coetanei ed arrivò a sviluppare una serie di notazioni e strumenti indipendenti per rappresentare e trattare le funzioni trigonometriche elementari.
Questa sua abilità nel costruirsi strumenti su misura per applicare la scienza la si ritrova negli anni della maturità scientifica, con lo sviluppo dei diagrammi di Feynman e degli integrali di Feynman che avrebbero costituito la “balestra in un mondo in cui tutti erano armati di arco e frecce” (cit.) e gli avrebbero aperto la strada verso il premio Nobel.
Conseguì la laurea e il dottorato in fisica al MIT e a Princeton. Mentre portava avanti il dottorato di ricerca, il suo riconosciuto talento per la fisica e la matematica gli valse un posto all’interno del Progetto Manhattan, con il quale il governo degli Stati Uniti si proponeva di sviluppare la prima bomba nucleare.
In quegli anni dovette affrontare anche dei drammatici momenti personali, come nei suoi lunghi andirivieni in autostop tra Los Alamos e l’ospedale di Albuquerque in cui la sua Arlene moriva di tubercolosi.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, accettò una cattedra all’Università di Cornell. Lì riprese a sviluppare l’idea su cui stava lavorando prima della guerra. Si trattava di un metodo per calcolare le probabilità di transizione di un quanto da uno stato ad un altro. Sviluppò così un nuovo formalismo per la meccanica quantistica, che venne in seguito adattato all’elettrodinamica quantistica. Per questo suo lavoro ricevette il Premio Nobel per la fisica nel 1965, assieme a Sin-Itiro Tomonaga e Julian Schwinger che svilupparono indipendentemente altri metodi per lo stesso problema.
A partire dagli anni cinquanta è stato docente di fisica al California Institute of Technology e si è occupato di superfluidità, superconduttività e del decadimento beta dei neutroni. Feynman era ormai una leggenda, un modello per i colleghi e gli studenti. Oltre all’immagine del genio anticonformista, dell’affascinante cacciatore di donne, del frequentatore di locali notturni, del goliardico suonatore di bongo, un’altra figura ha arricchito il mito di Feynman: l’insegnante e il comunicatore della scienza. Molte sue lezioni sono state oggetto di culto tra studenti e colleghi, spesso registrate su cassette audio o video. Alcune sono state raccolte da editori illuminati, creando libri diventati poi un classico come La Fisica di Feynman. In Italia la casa editrice “Gli Adelphi” ha pubblicato i due volumetti Sei pezzi facili e Sei pezzi meno facili in cui, come un grande pianista che illude l’ascoltatore sulla “facilità” dei suoi virtuosismi rendendoli apparentemente alla portata di tutti, Feynman “esegue” 12 piccoli capolavori didattici che solo la sua straordinaria comunicativa fanno sembrare alla portata di ogni insegnante.
Feynman è ritenuto il padre delle nanotecnologie, con un noto discorso passato alla storia come There’s plenty of room at the bottom[1] (1959), in cui per la prima volta si considerava la possibilità di manipolazione diretta degli atomi nella sintesi chimica.
È inoltre considerato uno degli ispiratori del calcolatore quantistico e fece parte della commissione voluta dal presidente Reagan che ricercò le cause del disastro del Challenger nel 1986, quando lo Shuttle esplose pochi secondi dopo il lancio.
Nel 1986 è stato l’unico scienziato a partecipare alla commissione d’inchiesta che dovette indagare le cause del disastro dello shuttle Challenger pochi secondi dopo il lancio.
Quasi settantenne, con solo un bicchiere d’acqua e qualche pezzo di ghiaccio riuscì a dimostrare a centinaia di ingegneri, burocrati della Nasa e giornalisti presenti che le causa del disastro era dovuta unicamente all’irrigidimento degli anelli di gomma (O-Ring) di uno dei due razzi ausiliari a propellente solido a basse temperature, inferiori a zero °C.
Incidente che, come denunciò, scaturiva dal cattivo rapporto che nella Nasa esisteva tra dirigenti e ingegneri. La morale della relazione conclusiva di Feynman è una lezione che oggi, dopo il recente disastro del Columbia, colpisce ancora di più.
“Se si vuole mantenere una rigida tabella di marcia per i lanci spaziali -spesso il lavoro di ingegneria non può essere compiuto abbastanza velocemente da permettere di rispettare i previsti criteri di sicurezza. Questo implica una diminuizione nella sicurezza dei voli. La Nasa dovrebbe informare onestamente i cittadini di questo pericolo”. […] “Per una tecnologia di successo, la realtà deve avere la precedenza sulle relazioni pubbliche, perché la natura non può essere ingannata!
Questa dimostrazione pubblica davanti alle reti televisive lo fece diventare una specie d’eroe nazionale ma anche considerare un vero “rompiscatole” dai vertici Nasa (in realtà il termine che usarono fu un po’ più colorito).
Alle riconosciute doti di fisico, Feynman affiancava un senso dell’umorismo fuori dal comune (molti aneddoti sulla sua vita sono raccontati in prima persona nelle raccolte Sta scherzando, Mr. Feynman e Che ti importa di cosa dice la gente?) e una passione per la musica e le arti figurative (suonava il bongo e faceva ritratti – di donne – firmandosi ‘Ofey’). Amava definirsi Nobelist Physicist, teacher, storyteller, bongo player, ovvero Fisico premio Nobel, insegnante, cantastorie, suonatore di bongo.
La popolarità e il potere comunicativo dell’immagine di Feynman hanno pochi eguali tra gli scienziati: Einstein a partire dai primi anni venti (come non ricordare la celebre foto della linguaccia!) e Stephen Hawking ai giorni nostri. La sua immagine è stata sfruttata persino dai pubblicitari ingaggiati per la campagna think different della società di computers Apple, in due poster.
[Fonti: Wikipedia, Torinoscienza e Thedailybit]

[…]
Una volta, a Princeton, mentre stavo seduto nel salone, avevo sentito dei matematici parlare della serie di ex, che è 1 + x + X2 /2! + X3 /3!
Si ottiene ogni termine moltiplicando quello precedente per x, e dividendo per il numero successivo. Per proseguire la serie oltre x4/4!, per esempio, si moltiplica quel termine per x e si divide per 5. È semplicissimo. Da bambino mi piaceva molto giocare con le serie. Avevo calcolato e usando la serie ex e m’ero accorto che i nuovi termini diventavano piccolissimi.
Quel giorno nel salone borbottai qualcosa su come usando quella serie fosse facile calcolare e a qualsiasi potenza: bastava sostituire x con l’esponente.
«Allora sentiamo quanto fa e alla 3,3» mi chiese qualcuno sperando di incastrarmi. Tukey, credo si chiamasse.
«Facile: fa 27,11».
Tukey sapeva che non era facile far tutti quei calcoli a mente. «Come fai a dirlo?»
«Conosci Feynman, è un imbroglione! Figurati se è giusto!» intervenne un altro.
Andarono a procurarsi una tabella, e io intanto aggiunsi altri due decimali. «27,1126,» dissi.
«Hai ragione!» L’avevano trovato. «Ma come fai?»
«Ho addizionato la serie.»
«Nessuno può riuscirci tanto in fretta. La conoscevi già. Proviamo con e al cubo.»
Protestai. «È faticoso. Non più di una serie al giorno!»
«Hai imbrogliato.» Ridevano contenti.
«Va bene. Fa 20,085.»
Mentre controllano sul libro, aggiungo qualche altro decimale. Giusto anche questa volta! Erano sbalorditi.
Eccoli folgorati, i grandi matematici del momento, perché riuscivo a calcolare e a qualsiasi potenza. «Eppure è impossibile che faccia la somma», disse uno. «Ci sarà un trucco». E poi, rivolto a me: «Non riusciresti a calcolare una cosa difficile come e alla 1,4».
È difficile, l’hai detto. Visto però che me lo chiedi tu, fa 4,05.» Mentre controllavano aggiunsi i soliti decimali dicendo «Ed è l’ultima per oggi! » e me ne andai.
In realtà, conoscevo tre numeri a memoria: il logaritmo di 10 in base e (necessario per convertire i numeri da base 10 a base e), che è 2,3026 (quindi sapevo che e alla 2,3 è vicinissimo al 10), e per via della radioattività (per il calcolo della vita media e del tempo di dimezzamento) conoscevo il logaritmo di 2 in base e, che è 0,69315 (e quindi che e alla 0,7 è quasi uguale a 2). Sapevo anche e alla 1, che è 2,71828.
Il primo numero che mi avevano dato era e elevato alla 3,3, che è uguale a e alla 2,3, che fa 10, moltiplicato per e, cioè 27,18. Mentre loro si scervellavano per capire come facessi, io correggevo quello 0,0026 in più. 2,3026 è in effetti un po’ abbondante.
Sapevo che non sarei stato capace di farne un altro, c’ero riuscito per puro caso. Ma dissero e elevato alla terza: cioè e a 2,3 più e a 0,7, cioè dieci per due. Sapevo quindi che era intorno a 20, e mentre si davano da fare per capire il trucco, aggiustai a 0,693 lo 0,7.
Li avevo proprio sbalorditi, anche se era stata tutta fortuna. Ma mi hanno chiesto ancora e alla 1,4, che poi è il quadrato di e alla 0,7, e quindi mi era bastato alzare un po’ il 4!
Non hanno mai capito come ci riuscissi.
A Los Alamos avevo scoperto che Hans Bethe era un campione del calcolo a mente. Una volta stavamo sostituendo dei valori numerici in una formula e siamo capitati sul quadrato di 48. Mentre tiravo fuori la calcolatrice, Bethe disse «2300», e stavo ancora pigiando sui tasti quando aggiunse: «2304 per la precisione.»
La macchina ha dato 2304. «Accidenti! Davvero notevole», dissi.
«Ma come? Non sa calcolare i quadrati dei numeri vicini a 50? Basta fare il quadrato di 50 – cioè 2500 – e sottrarre 100 volte la differenza con 50 (in questo caso 2), e fa 2300. Per maggior precisione, basta aggiungere a questo risultato il quadrato della differenza.»
Poco dopo, ci serviva la radice cubica di due e mezzo. Per estrarre una radice cubica con la calcolatrice Marchant, occorreva usare per una prima approssimazione una tavola di valori numerici. Fui costretto ad aprire il cassetto per prendere la tabella. Bethe aveva qualche secondo di vantaggio, e disse: «Fa circa 1,35»
Provai con la Marchant, era giusto. «Come ha fatto, questa volta? Ha un segreto per estrarre radici cubiche?»
«Ma no», rispose. «Il log di 2,5 è tot, un terzo di questo log è compreso tra i logaritmi di 1,3 e 1,4. Per interpolazione ne concludo che fa 1,35.»
Avevo quindi scoperto che: primo, conosceva la tavola dei logaritmi a memoria; e secondo, i calcoli aritmetici che aveva fatto a mente per la sola interpolazione mi avrebbero richiesto più tempo che cercar la tabella e schiacciare i tasti della calcolatrice. Rimasi impressionato.
Dopo di che ci provai anch’io. Mandai a memoria alcuni logaritmi, e cominciai ad accorgermi di certe cose. Per esempio, qualcuno chiede il quadrato di 28. Si sa che la radice quadrata di 2 è 1,4; 28 corrisponde a 20 per 1,4 – pertanto il quadrato di 28 dev’essere intorno a 400 per 2, cioè circa 800.
Se a qualcun altro capita di voler dividere 1 per 1,73, potete dirgli subito che il risultato è 0,577, perché vi accorgete che 1,73 è quasi la radice quadrata di 3 e che 1/1,73 deve essere un terzo della radice quadrata di 3. E se invece si vuol calcolare 1 diviso 1,75, si vede subito che è uguale all’inverso di 7/4, e siccome avete memorizzato i decimali ricorrenti per 7, direte subito 0,571428…
Ci siamo divertiti moltissimo, con Hans, a trovar sotterfugi per calcolare a mente e in fretta. Capitava di rado che io trovassi una scorciatoia che a lui fosse sfuggita, o arrivassi prima alla soluzione ma, quando accadeva, Bethe scoppiava in quella sua risata cordiale. Era praticamente capace di calcolare a mente qualsiasi cosa con un’approssimazione al centesimo. Per lui era semplice, ogni numero si trovava nei pressi di un altro che già conosceva.
Un giorno ho voluto darmi delle arie. Eravamo a colazione vicino al laboratorio, non so cosa mi abbia preso. Dichiarai che ero capace di risolvere in meno di 60 secondi, con un margine del 10% di approssimazione, qualsiasi operazione che chiunque avesse esposto in 10 secondi.
La gente cominciò a darmi operazioni presunte difficili, come integrare una funzione del tipo 1/1 + x4: era facile, perché quella funzione praticamente non varia nell’intervallo che mi avevano dato. Quella più difficile, e ce l’ho fatta per un pelo, fu calcolare il coefficiente binomiale di x10 nello sviluppo del binomio (1 + x)20.
Tutti mi davano operazioni, io mi sentivo geniale, quando arrivò Paul Olum. Paul aveva lavorato con me a Princeton prima di Los Alamos, ed era stato sempre più brillante di me. Un giorno, giocavo sovrappensiero con quei metri metallici che vi si riavvolgono in mano schiacciando un pulsante, il metro mi colpiva regolamente la mano e cominciavo a sentire male.
«Sono proprio imbranato! Continuo a giocare con quell’affare, e ogni volta mi faccio male», avevo detto.
«Lo tieni nel modo sbagliato», aveva risposto Olum. Estratto il metro, aveva schiacciato il pulsante, e il nastro era rientrato in modo per Olum indolore.
«Come fai?»
«Indovina.»
Per due settimane mi ero aggirato per Princeton col metro, avevo la mano coperta di lividi. Infine mi ero arreso: «Paul! Hai vinto! Come fai a riavvolgerlo senza farti male?»
«Chi ha detto che non mi fa male? Fa male anche a me.» Ero rimasto con un palmo di naso. Per colpa sua mi ero esercitato, e fatto male alla mano, per due settimane.
Dunque Paul arrivò in mensa: i colleghi erano eccitatissimi: «Paul, vieni a sentire cosa fa Feynman! Gli diamo un problema che si può enunciare in dieci secondi, e in un minuto lo risolve con un approssimazione del 10%. Prova tu!»
«La tangente 10 alla cento» dice, senza neppure fermarsi a pensare.
Mi aveva fregato: bisogna dividere per pi greco con una precisione fino al centesimo decimale. Non c’era speranza.
Un’altra volta, mi ero vantato di poter trovare con metodi diversi qualsiasi integrale chiunque altro avesse calcolato con integrali di contorno. Allora Paul mi ha dato un integrale terrificante, che aveva ottenuto a partire da una funzione complessa di cui conosceva il risultato. Aveva tolto la parte reale e lasciato soltanto la parte immaginaria in modo tale da costringermi a procedere con un integrale di contorno. Mi smontava sempre così, era davvero in gamba.
[…]
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