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Suicidio

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Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.
(Cesare Pavese)

Pavese ha corteggiato l’idea del suicidio per tutta la vita, collegandola costantemente con il tema amoroso. Ne “Il mestiere di vivere” le motivazioni del suicidio sono affrontate da tutti i lati. Il 24 aprile 1936 Pavese contrappone al suicidio la “smania dell’autodistruzione”. Il suicidio sarebbe un gesto eroico, un’affermazione della “dignità dell’uomo davanti al destino”, ma Pavese, che in questo momento lo rifiuta, sente che sta per avviarsi sulla via dell’autodistruzione. Egli sostiene che l’autodistruttore è una persona innamorata della vita, che distrugge se stesso per “scoprire entro di sè ogni magagna, ogni viltà”; e per fare in modo che avvenga questa disposizione autodistruttiva, ricerca, s’inebria, gode di queste magagne e di queste viltà. L’autodistruttore, che “è soprattutto un commediante e un padrone di sè”, non trascura “nessuna opportunità di sentirsi e provarsi”. In un certo senso è un ottimista che “spera ogni cosa dalla vita”.

Al suicidio, con tale disposizione, si può arrivare soltanto per imprudenza oppure se si cede alla “smania di costruzione, di sistemazione”, ossia ad un imperativo morale. L’autodistruzione è identificabile con una vita che a Pavese sembra di poca importanza: è la vita appunto che sta conducendo, che nel contempo in parte condanna ed in parte accetta con soddisfazione. L’autodistruzione si configura quindi come una manifestazione di insofferenza nei confronti dell’esistenza umana, una manifestazione che in Pavese viene descritta in forma tragica, in quanto l’autodistruzione è un modo per avvicinarsi sempre di più al suicidio, che però non viene mai messo in pratica da un uomo non “cresciuto moralmente”, “vano” (10 aprile 1936), che pensa di liberarsi dalle sofferenze della vita attraverso il suicidio, ma senza commetterlo e afferma: “il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità”.

Pavese è consapevole che l’idea dominante del suicidio può trasformarsi in abitudine: “Il maggiore torto del suicida è non d’uccidersi, ma di pensarci e non farlo” (6 novembre 1937). La convinzione di non poter mai attuare il suicidio è anche espressa il 23 marzo 1938, quando Pavese dice: “non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi”. Da un altro lato emerge, in contrapposizione all’autodistruzione, l’idea di un suicidio inteso come atto dimostrativo: “perchè non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire?”; “E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l’atto più importante di una vita” (30 novembre 1937). E ancora: “resta sempre che voler uccidersi è desiderare che la propria morte abbia un significato, sia suprema scelta, un atto inconfondibile” (8 gennaio 1938). Con queste parole l’autore sembra esortare l’uomo a non attendere la morte naturale e a non lasciarsi sfuggire l’opportunità di decidere da solo della sua esistenza. Attraverso il suicidio l’uomo vuole dimostrare qualcosa, esprimere la sua insoddisfazione nei confronti dell’esistere; questa scontentezza cade però nel momento in cui egli si avvicina alla morte e comprende la grande importanza della vita, il forte attaccamento ad essa.

Pavese parla anche del suicidio per disperazione, dovuto alla sua impotenza di avere un rapporto con le donne: “Ci voleva l’impotenza, la convinzione che nessuna donna si goda la chiavata con me, che non se la godrà mai ed ecco quest’angoscia. Questo è veramente il dolore che accoppa ogni energia: se non si è uomo, se non si possiede la potenza di quel membro, se si deve passare tra donne senza potere pretendere, come si può farsi forza e reggere? C’è un suicidio meglio giustificato?” (23 dicembre 1937); si tratta di un suicidio che dà una sorta di felicità: “Perchè quest’allegrezza sorda e profonda, fondamentale, che sorge nelle vene e nella gola di chi ha stabilito d’uccidersi? Davanti alla morte non dura più che la bruta coscienza che siamo ancora vivi” (5 febbraio 1938). Questo significa che per Pavese il suicidio appare come un gesto che l’uomo attua a causa della debolezza che egli sente e alla disperazione che egli prova di fronte all’impossibilità di realizzare la propria volontà.

Pavese analizza anche il suicidio inteso come forma di chiara decisione di porre fine alla disperazione divenuta ormai un’abitudine: Pavese definisce coraggiosi coloro che soffrono profondamente., perché in questa maniera fanno del loro dolore una ragione di vita, che si tramuta poi in una motivazione del loro agire, ossia del fatto che compiono il suicidio, quindi afferma: “Hanno coraggio quelli che per indole sanno soffrire in modo irruente e totalitario: così si disarma la sofferenza, la si fa nostra creazione, elezione, rassegnazione. Giustificazione del suicidio” (10 novembre 1938).

Nel 1946 Pavese inizia a concepire il suicidio come una soluzione utile a mettere in evidenza il vuoto ed il senso di smarrimento che si cela dietro alle soddisfazioni che derivano dal suo operato ed in seguito dal successo che sta ottenendo.  Dopo aver espresso la sua contentezza per gli innumerevoli risultati raggiunti dal punto di vista letterario, Pavese afferma: “Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo”(I° gennaio 1946). Quest’ultimo asserimento appare piuttosto avvilente, in quanto egli si rende conto che, nonostante possieda innumerevoli capacità, vive in una condizione di completo estraniamento dalla realtà e di profonda solitudine. Poi continua dicendo: “Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno”, ripetendo quel concetto di disimpegno sociale che lo deprimeva (“Non ho mai combattuto, ricordalo”). E’ la prima volta, ne “Il mestiere di vivere”, che il suicidio sembra iniziare a concretizzarsi.

Man mano che si consolidano i raggiungimenti sia nella carriera di scrittore che in quella editoriale, in Pavese si accentua l’idea di materializzare il suicidio, in particolare a partire dal 1948. Lo scrittore comincia a percepire addirittura una forte mancanza di vitalità, anche dal punto di vista fisico: “sentito per la prima volta – oggettivamente – la decadenza fisica, l’incapacità di fare uno sforzo, un salto, un exploit” (I luglio 1949) e dell’esaurimento nervoso (28 novembre 1949); “sono molto deteriorato dal ’34 e dal ’38. Allora ero smaniosissimo ma non malato” (6 marzo 1950). Tra le spinte al suicidio è presente anche la responsabilità politica: “La beatitudine del ‘48-’49 è tutta scontata. Dietro quella soddisfazione olimpica c’era questo – l’impotenza e il rifiuto a impegnarmi. Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio (27 maggio 1950).

Pavese sembra quindi optare per il suicidio, in quanto si vede incapace di affrontare la vita sociale: il suo impegno politico coincide con un inutile gesto di ribellione, che finisce col confermare il suo senso di impotenza e di frustrazione di fronte all’esistenza. Nelle note dei giorni 9, 16, 20, 21 e 22 marzo 1950 vengono espressi profondi sentimenti per una donna da lui molto amata, Costance, per la quale prova una passione quasi adolescenziale, un desiderio di matrimonio, ma in seguito tutto si tramuta in un tentativo di rassegnazione ed in tragedia: l’amore risulta così inappagante ed impossibile, incapace di dare una risposta al senso di solitudine e di emarginazione.  Il suicidio si presenta come manifestazione della volontà: “sempre gli è allacciata [all’amore] la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di più?” (23 marzo 1950). Da questa riflessione emergono le possibili motivazioni che potrebbero spingerlo ad un suicidio che non è da attribuire alla donna, ma ad una condanna che sembra pesare su Pavese: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla” (25 marzo 1950); il gesto – il gesto non deve essere una vendetta. Dev’essere una calma e stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. L’ultima battuta” (10 maggio 1950). Soltanto verso gli ultimi giorni della sua vita, il suicidio si configura come atto dimostrativo che lo scrittore indirizza alla donna ed afferma: “Il coraggio. Tutto starà nell’averlo al momento buono – quando non le nuocerò – ma che lo sappia, che lo sappia” (27 maggio 1950); o come una vendetta (“I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo”, 17 agosto 1950).

Il 17 agosto1950 Pavese scrive, come d’abitudine, il resoconto di quell’anno che, per lui, volgeva verso la fine: si tratta però anche del resoconto di un’intera vita, una spiegazione delle ragioni che lo portano a porre fine alla sua tormentata esistenza: “E’ la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito. Nel mio mestiere dunque sono re. In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora. Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’ “inquietudine angosciosa” [cioè di Constance Dowling, l’ultima amata], sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita. Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.

Il 18 agosto, mentre forse aveva già pronte le bustine di sonnifero che lo avrebbero liberato dall’angoscia, scrisse l’ultima pagina del suo diario: non più per sé, ma per la sua donna. E’ una pagina in cui egli esprime la sua incapacità di lottare tra l’istinto vitale e quello di morte, una pagina che si conclude con: “ Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. L’atto di scrivere, negato per l’avvenire, è esercitato per l’ultima volta. Pavese muore, ma da scrittore. Da scrittore che non scriverà più. E’ lo scrittore che ha voluto chiudere in modo degno il suo diario, vincendo una temuta impossibilità (“Non si può finire con stile”, 20 luglio 1950): lo scrittore come eroe della propria scrittura, e perciò anche come personaggio.

Francesca Valcauda

Written by filippo

20 agosto 2009 a 1:27 PM

Pubblicato su Libri

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